martedì 31 marzo 2009

lunedì 30 marzo 2009

Testamento biologico

Insomma alla fine ce l'hanno fatta, sono riusciti a mettere il loro beccaccio in uno degli aspetti più intimi e personali della persona umana: l'autonomia delle decisioni da prendere di fronte alla malattia e alla sofferenza, quando queste non sono un viatico verso la guarigione ma un (per alcuni) ulteriore supplizio prima del trapasso. La sfera inerente al comportamento, alle reazioni e alle decisioni di un individuo al cospetto dell'imponderabile, cioè l'avvicinarsi della fine, la morte, è forse la dimensione meno esplicabile e più irrazionale con cui l'uomo deve, prima o poi, rapportarsi. Decidere se una vita è ancora degna, o meno, di essere vissuta, non può rispondere a nessuna logica codificata, non può essere pianificata. Non c'è mai stato nè mai ci sarà uno standard comune a tutti coloro che si avviano sul viale del tramonto. E questo è tanto più vero se la serenità del trapasso è minata dalla sofferenza, da una malattia che sfigura il corpo e rende impraticabile la vita come la si è conosciuta fino ad allora. Molte scuole di pensiero, con in testa le varie religioni, offrono pacchetti preconfezionati con tutte le istruzioni utili al viaggio verso il mistero della morte. Ma nei momenti più bui, quando le certezze di una vita vissuta con la pienezza del proprio corpo e della propria mente ci abbandonano, non sempre gli atteggiamenti sono coerenti con ciò che si è professato fino all'altro ieri. Imporre a una persona di continuare a soffrire come un cane solo perchè qualcuno, mosso da motivazioni etiche e di principio da cui non si può prescindere, ha deciso che la vita va vissuta in ogni caso è scandaloso. Mettere sullo stesso piano l'imposizione del casco ai motociclisti, e le cinture di sicurezza con l'alimentazione forzata è da criminali del pensiero. Oltre che da perfidi mistificatori. Nessuno, neanche chi in prima persona ha avuto un proprio familiare in fin di vita e lo ha visto contorcersi dal dolore e dagli spasmi di un corpo non più controllabile può conoscere i desideri di chi invece vede la vita inesorabilmente scadere nel dolore quotidiano. Tantomeno la decisione può essere rimessa alla coscienza ei medici, che già per quanto riguarda l'aborto e la somministrazione della pillola del giorno dopo hanno fatto e continuano a fare danni su danni. Il medico fa il suo lavoro finchè aiuta l'ammalato a guarire, in questo consiste la filosofia ippocratica, non nel prolungamento non voluto del dolore. Cosa significa: bisogna recuperare la cultura della sofferenza? Cosa significa: bisogna saper accettare con serenità la morte, se poi non si vuol far morire in pace una persona già condannata?


Il problema della vita artificiale in realtà è una qusestione recente. Solo dagli anni settanta, in seguito a gravi traumi o malattie inevitabilmente mortali, è possibile con l'ausilio di alcune macchine protrarre la vita oltre il confine della fatalità. Respiratori meccanici, digestori artificiali e alimentazione fornita, insieme a farmaci di ultima generazione, tramite un inesorabile sondino che scende giù nell'esofago fino ad arrivare direttamente allo stomaco non hanno nulla di naturale. Senza nulla togliere alle tante opportunità portate da queste tecnologie, parlare di eutanasia quando se ne rifiuta l'ausilio è semplicemente sconcertante. La nostra costituzione tutela la libertà di scelta oltre al diritto alla vita, e non c'è nessuna contraddizione in questo. E' da stato etico, oltre che falsamente indipendente, voler imporre per decreto una propria visione del cosiddetto "fine vita". Inoltre nel disegno di legge proposto alle camere, a causa dell'emendamento dell'Udc, vi è un incoerenza di fondo insanabile, che getta disdoro sulla reale volontà delle istituzioni di far chiarezza sulla questione. In pratica se una persona redige un "testamento biologico", con tanto di leggittimazione notarile, in un periodo precedente all'evento che poi lo porterà ad un agonia senza via d'uscita, in sostanza alla morte, a questa persona non possono essere sottratte nè la ventilazione artificiale, nè l'alimentazione e l'idratazione per mezzo di un sondino. Mentre se quest'indivuo in piena agonia (dunque dopo che una malattia o un incidente ne hanno inficiato in maniera irrimediabile la salute), ma sorretto ancora dalla dovuta ragione, rifiutasse la vita artificiale si vedrebbe risparmiata l'inutile sofferenza non desiderata. Assurdo. Mi dispiace, ma nonostante io abbia profuso un notevole impegno nella comprensione della questione, non sono riuscito a capire come sia stato possibile dar vita a una tale contraddizione.


I politici che, dopo il caso Englaro (per altro non comparabile con ciò che si è discusso in quanto la volontà di Eluana è stata ricostruita e non direttamente espressa), sono assurti a paladini della vita tout court, hanno, in modo viscido e vergognoso, portato il naturale dibattito ,che un tema così sensibile genera, sul campo della radicale contrapposizione tra un partito della vita (quello loro) e un partito della morte (coloro che sostengono la libertà di scelta). Infinitamente influenzati dalle gerarchie ecclesiastiche questi uomini del bene si sono permessi di sputare sentenze sull'operato del padre di Eluana, sostenendo che l'ampio spettro di comportamenti e di relative decisioni sul fine vita, proprio di una società matura e responsabile, non è ammissibile, in quanto è da "assassini" o da aspiranti "suicida" rifiutare le inutili cure. Una domanda: ma se lo stato non permette di interrompere l'alimentazione e l'idratazione forzata a chi le rifiuta perchè inesorabilmente avviato alla morte, come la mettiamo con chi pratica lo sciopero della fame? E con chi è affetto da anoressia, e dunque non si nutre? E con tutti quelli che per povertà non hanno di che sfamarsi? Lo stato dovrebbe obbligare anche questi ad alimentarsi, dato che per i malati sono diritti non alienabili pur di fronte al diniego degli interessati. Giusto? Ma allora chi muore di fame non ha più nulla di cui preoccuparsi, lo stato garantirà loro il cibo, anche quando sazi lo rifiuteranno.


Libera scelta sul proprio corpo, sulla propria vita e sulla propria morte. Se la risposta delle istituzioni a un problema così serio e sentito dalla gente è un obbligo a soffrire sempre o comunque, anche quando non se ne ha voglia, perchè la sofferenza cristiana è un viatico per il paradiso, meglio non avere nessuna legge e lasciare il tutto all'arbitrio di chi il dolore lo affronta, giorno dopo giorno.

Piano casa 2

In un post di qualche giorno fa ho affrontato la questione del piano casa proposto dal governo Berlusconi. Oggi vorrei ampliare il discorso o perlomeno rendere più chiara la mia posizione. Innanzitutto ribadisco la mia perplessità per quanto riguarda l'assenza totale di un programma di sussidio, assistenza e agevolazioni a coloro che non hanno la possibilità di prendere in affitto una casa e tantomeno di acquistarla. Nè dal governo, nè dall'opposizione sono arrivate proposte per attivare un programma su larga scala di edilizia popolare. In un periodo di stagnazione economica, come quello che stiamo vivendo, non avrebbe un effetto benefico sull'industria edile e in termini occupazionali un intervento diretto dello stato? Lo so è un discorso Keinesiano, ma la mia idea, che poi è quella di molti da tanti anni, non va nel senso di un ritorno allo stato imprenditore, lungi da me. Abbiamo già visto quali danni e storture può provocare uno stato, nello specifico quello italiano, proprietario diretto di attività produttive, e poi indietro non si torna. No, il mio è un discorso di più stretta necessità: quella di agevolare le fasce più povere della popolazione. Badate bene, il mio non è un atteggiamento buonista, ma di buon senso. Per prima cosa nessuno chiede allo stato di costruire case e regalarle, ma di dare la possibilità a chi ne riceverà una di riscattarla poco alla volta. In secondo luogo un'emergenza sociale che ha come base l'assenza di un abitazione è molto più grave e pericolosa di una crisi economica, che frena i consumi ma permette comunque alle persone di continuare a vivere, in attesa di tempi migliori. Ripeto, senza una casa non si può aspettare che passi "a nuttat", dato che tutti gli sforzi, di una persona o di una famiglia, andranno vanificati dal pagamento di affitti scandalosi.


Nello specifico del "piano casa" proposto dal governo, il mio giudizio, quantunque il progetto non sia ancora del tutto chiaro, non è pregiudizialmente negativo. Se gli interventi di ampliamento o di ricostruzione non andranno a divorare altro terreno libero, come sembra che sia, il piano può essere di stimolo all'economia, e magari con adeguati progetti si potrebbe avere anche un miglioramento di alcune realtà abitative attualmente obbrobriose. Oltre all'aspetto meramente estetico, una particolare attenzione deve essere rivolta al calcolo della stabilità degli edifici che subiranno modifiche. Anche se in merito all'efficienza degli studi di stabilità negli ultimi anni le cose sono migliorate, con la responsabilizzazione di architetti, ingegneri e geometri, che rispondono personalmente di eventuali crolli e quant'altro, non bisogna dimenticare che noi siamo il paese delle scuole, delle case e degli edifici pubblici che crollano senza un motivo. E l'attenzione non è mai troppa quando ne va della vita delle persone (io sono molisano , e a San Giuliano di Puglia abbiamo avuto un assaggio di come modificare senza criterio una struttura può essere letale). Ancora sulla tutela ambientale, intoccabili devono essere i vincoli territoriali, per non far diventare una buona proposta il prologo di una deregulation dell'attività edilizia nel nostro paese. Le forze dell'ordine, nonostante oggigiorno il nostro territorio sia estremamente protetto da leggi e vincoli vari, non fanno in tempo a scoprire un abuso edilizio e a intraprendere le adeguate procedure di intervento, che altrove spuntano altri abusi al bene comune: l'ambiente. In sostanza non mi fido degli italiani e tantomeno, come ho già scritto nell'altro post, del loro buon gusto. Nessun paese ha avuto tanta grazia e al tempo stesso è stato amministrato con tanto cinismo e completa assenza di lungimiranza in materia di politiche ambientali, come l'Italia. Senza dimenticare che le colpe più gravi dello scempio ambientale, particolarmente intenso in alcune regioni, ricadono sulle spalle dei cittadini.

mercoledì 25 marzo 2009

Piano casa o condono?

Il piano casa proposto dal governo Berlusconi non verrà presentato per decreto questo venerdì per la ferma opposizione della Conferenza degli enti locali. Regioni e comuni hanno ottenuto una proroga fino a martedi per discutere e opportunamente concertare, assieme al governo, le misure da intraprendere per la riattivazione dell'industria delle ristrutturazioni e dell'edilizia privata. La proposta, almeno da ciò che finora è trapelato, consiste in una sostanziale deburocratizzazione dei procedimenti necessari all'ampliamento di case già esistenti, con la possibilità di aumentarne fino ad un massimo del 20% il volume; riduzione del balzello comunale sulle costruzioni, per chi amplia la propria casa o ristruttura edifici fatiscenti; agevolazioni per chi vuole abbattere un fabbricato vetusto con l'intenzione di costruirne uno nuovo, con la possibilità di aumentare fino al 35% la cubatura, rispetto all'edificio abbattuto, se vengono usate tecniche di bioedilizia. La proposta è avversata dal Pd e da molte associazioni ambientaliste che vedono in essa un condono travestito da incentivo. In pratica tutte quelle verandine, quei sottotetti ampliati e resi abitabili, l'allargamento non a norma di legge di case mono o bifamiliari, che ogni giorno vediamo spuntare nelle nostre città, verrebbero riportate sui binari della legalità e, anzi, incentivate. Al contrario, piccole aziende edili, falegnami, fabbri e tutto il mondo che ruota intorno all'edilizia, non vede l'ora che il decreto venga approvato. Secondo le stime di Berlusconi si attiverebbe un giro di denaro calcolato tra i 40 e i 60 miliardi di euro. E in tempo di crisi non mi pare ci sia niente di male, al contrario.




Le obiezioni però sono tante e riguardano l'endemica, almeno in alcune regioni, propensione all'abusivismo. L'Italia è un paese bellissimo abitato da gente davvero poco accorta, per non dire squallida. Intere zone, vedi Campania, sono alla mercè degli speculatori, e togliere ulteriori vincoli alla possibilità di costruire non mi sembra una buona idea. Berlusconi ha esordito dicendo "mi affido al buon gusto degli italiani". Quale buon gusto? Le villette senza intonaco che spesso si vedono nelle province meridionali? O gli innumerevoli ecomostri che da nord a sud affliggono il panorama del belpaese? Sono convinto che gli italiani hanno perso il loro buon gusto almeno da duecento anni. Comunque il decreto, se articolato in un certo modo, non è malefico. Innanzitutto se si interviene su edifici esistenti, sul loro ampliamento ed eventuale riqualificazione, e le intraprese possibili sono accuratamente specificate, lo stimolo all'economia diventa reale. In secondo luogo, devono essere mantenuti tutti i vincoli paessaggistici che, seppur odiati dagli operatori edili e da chi possiede un abitazione in un centro storico, in un paese autolesionista come il nostro sono vitali. La piccola impresa artigiana, che fa da indotto alle più grandi aziende di costruzioni, potrebbe realmente ricevere un beneficio, e corposo anche. Insomma bisognerà attendere informazioni per dirimere le perplessità. Non affidandoci al buon gusto degli italiani, altrimenti Dio ci salvi.



In tutto ciò non è stato nemmeno sfiorato il problema di quelli che una casa non l'hanno. E in un periodo di crisi come questo non avere un tetto può essere socialmente letale. Inoltre è sempre più difficile, per chi assolutamente non può acquistare un alloggio, affittare un appartamento seppur misero. I prezzi non sono scesi, anzi continuano a salire, ed è di un urgenza capitale stanziare denaro per aiutare le numerose famiglie, e i tanti giovani e disoccupati che si trovano in questa situazione. Calmierare gli affitti, offrire case non occupate con affitto bloccato e, ma questa è una pia illusione, riattivare un progetto di edilizia pubblica. In Italia è ormai da mezzo secolo che questo non avviene, l'ultimo ad interessarsi seriamente alla questione fu Amintore Fanfani. Tutto ciò è sconcertante. Un paese non può progredire con tante persone a cui manca il bene primario della casa. E' questo un elemento imprescindibile per qualsiasi progetto di stabilizzazione personale si voglia intraprendere: mettere su famiglia, fare unacquisto importante, rendersi autonomi dai propri genitori. Questa situazione denota un insensibilità profonda dei governanti, che con la scusa del "non ci sono soldi" ormai da troppo tempo se ne fregano. I soldi ci sono. I cazzo dei nostri soldi. Fate le case popolariiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii! OH!


martedì 24 marzo 2009

Il Papa è una vera e propria rockstar. Nessuno come lui riesce a catalizzare l'attenzione dell'opinione pubblica. I temi che più stanno a cuore alla politica vaticana, purchè se ne parli, sono sempre al centro del dibattito pubblico. Benedetto XVI, nonstante a primo acchitto non sembrerebbe, ha dimostrato ancora una volta di essere un vero e proprio animale da palco scenico.
............Ma la cura delle anime? La spiritualità? La religione? Il vaticano di tutto parla tranne che di religione. La chiesa, così facendo, perderà la sua superiorità spirituale ed etica, che le viene dall'infallibilità di Dio. Ma nell'agone politico tutti contano, o quasi, allo stesso modo e nonostante la chiesa cattolica è spesso al centro dell'attenzione in realtà sta perdendo la sua missione originaria. Peccato.



lunedì 23 marzo 2009

Pdl: la tomba di Berlusconi?



Alla fine sembra che il matrimonio si farà. Anzi è cosa certa, sono già stati spediti gli inviti e gli sposi hanno scelto insieme la bomboniera: un nuovo -?- soggetto politico. Gianfranco Fini, padre, fondatore e deus ex machina di Alleanaza Nazionale ha deciso di far confluire il proprio partito nel Pdl, nuovo (ma non tanto) aggregato politico/elettorale di centrodestra. Al congresso di Fiuggi del 1995, quando l'Msi abbandonò la definizione di partito post-fascista, Fini disse in tono solenne e velatamente religioso che il suo partito stava "abbandonando la casa del padre, per non farvi più ritorno". A quel tempo qualcuno (Francesco Storace), in modo sarcastico e sferzante, disse anche che si stava "abbandonando la casa del padre, per andare nella villa del padrone". Quel padrone era ed è Silvio Berlusconi. E l'uomo di Arcore, che ormai da quindici anni è l'uomo politico italiano più amato, odiato, sbeffeggiato e votato, è il reale proprietario del futuro Partito delle Libertà. La svolta di Fiuggi, che ha portato Alleanza Nazionale e in particolare Fini a indossare l'abito repubblicano tout court, non è mai stata digerita fino in fondo dalla base del partito che, nonostante la direzione democratico-liberale indicata dal leader, ha sempre mantenuto una forte connotazione identitaria di "destra", più o meno riconducibile al vecchio Msi. Sarà interessante vedere come questa ennesima edulcorazione verrà assorbita dalla pancia del partito. In particolare sarà indice di possibili frizioni il comportamento dei quadri dirigenti che, volenti o nolenti, per accaparrarsi le posizioni migliori si dovranno confrontare con la concorrenza dei berluscones.





Insomma, dopo la "proposta del predellino" (quando Berlusconi al termine di un comizio, dal predellino di una Mercedes blindata, lanciò la proposta di costituire il nuovo partito) ,che fece letteralmente incazzare i "colonnelli", la diluizione di An nel Pdl sembra cosa fatta. Ma qui entra in gioco, o meglio inizia il gioco di Gianfranco Fini. Da anni ormai impegnato a costruirsi un immagine di rispettabilità democratica, Fini è palesemente alla caccia dell'eredità politica (la poltrona di presidente del consiglio) di Berlusconi. Quello del partito unico era l'ultimo tassello che mancava al suo progetto. Da questo momento chi voterà l'uomo di Arcore, esprimerà implicitamente anche una preferenza per lui. Da leader di An non avrebbe mai potuto sperare di assurgere al ruolo di prima punta dello schieramento di centrodestra, ora, con Berlusconi che punta alla presidenza della repubblica, per lui si aprono spiragli inimmaginabili fino a qualche tempo fa. Il problema potrebbe essere rappresentato dal fatto che l'idea di Berlusconi capo dello stato non va giù a gran parte della sinistra, e per essere eletto presidente della repubblica necessita di un ampia convergenza, anche dell'opposizione. Dunque se questo, il piano A, non si dovesse realizzare, e il Berlusca rimanesse ancora in circolazione come possibile premier, Fini ha già in mente il piano B Fino ad ora Forza Italia non è stato un vero partito, di quelli che siamo abituati a conoscere. Non ha mai fatto un congresso per definire la base programmatica, non è mai stato animato, al proprio interno, da un acceso dibattito politico. Berlusconi si è sempre comportato come un padre padrone è a sempre fatto autonomamente le sue scelte. L'intento di Fini è quello di portare Berlusconi a scontrarsi su idee e programmi, a intraprendere un dibattito per definire la piattaforma politica e a concertare le decisioni; in sostanza ridurre "l'unto del signore" al pari di tutti gli altri leader di centrodestra, in un vero partito, fatto di veri congressi. Questo sarebbe letale per uno come Berlusconi che, abituato ad essere il centro del suo mondo, perderebbe la sua aurea taumaturgica. E per uno che si sente un Dio, non potrebbe esserci cosa più letale che scoprirsi uomo (e neanche dei migliori).


Non preoccupatevi però, la vecchia volpe avrà già pensato a tutto questo e pianificato le dovute contromisure. Molto probabilmente a fare una brutta fine e ad abbassarsi al ruolo di comprimario sarà Fini. Purtroppo per lui (per le sue aspirazioni) e per noi, prima di vedere un altro uomo a capo del centrodestra (e a capo del governo) passerà ancora del tempo, e la cosa che più mi fa raccappriccio e mi rende sconsolato, è che dovremo aspettare la morte fisica, e non politica del cavaliere, prima di liberarci di lui.

domenica 22 marzo 2009

Robert Johnson & Charlie Chaplin

La musica di Robert johnson, il bluesman che vendette l'anima al diavolo per carpire i segreti della chitarra, fa da sfondo a questa piccola storia che ho voluto raccontarvi utilizzando immagini tratte da "Il monello" di Chaplin. E' una storia d'amore, spero vi piaccia.

Smash Brunetta

Ma vi pare possibile che un ministro della Repubblica, tale Brunetta, rivolto agli studenti gonfiati di botte dalla polizia davanti alla Sapienza se ne esce con "sono guerriglieri e in modo tale li tratteremo"? Sono guerriglieri? Ma chi? Gli studenti! Avessero tirato fuori i Kalashincov, allora si uno dice: sono guerriglieri. Ma così, dopo averle prese per un oretta buona, con vari feriti e nemmeno un occhio gonfio tra la polizia è assurdo. Ma per fortuna, il ministro, dopo aver capito di aver esagerato è tornato in sè e ha definito gli studenti come il resto delle persono che conosce: FANNULLONI! A lavurà negher

Smash Brunetta

Che bravo ragazzo



venerdì 20 marzo 2009

martedì 17 marzo 2009

Molise: le comunità locali vogliono contare di più




Prendere parte alle decisioni, avere voce in capitolo su temi che riguardano direttamente il territorio e incidere sul proprio futuro. Sono queste le richieste delle comunità locali italiane troppo spesso messe da parte nelle decisioni che contano. Nel nostro paese, in particolare per quanto riguarda le infrastrutture, le decisioni di agire su un territorio cadono dall'alto sulla testa dei cittadini senza che questi possano dare la loro opinione o suggerire migliorie. Questo atteggiamento della politica statale, nel corso degli anni, ha provocato veri e propri scempi, oltre a opere odiate da coloro che le utilizzano. Sono ancora vive nella memoria dell'opinione pubblica le furibonde proteste, accentuate dalle puntuali manganellate della polizia, dei comitati nati per contrastare il completamento della Tav, e l'ampliamento della base americana di Vicenza. Questi due casi sono solo la punta di un iceberg, gli esempi che hanno avuto più visibilità e che hanno ricevuto la solidarietà di molte persone da tutta Italia, ma sottotraccia, e lasciati alle sole forze di comitati cittadini formati da poche decine di persone, ci sono centinaia di situazioni di conflitto tra comunità locali e amministrazioni.



Il caso di cui vorrei parlare, e che maggiormente mi sta a cuore, è quello del Molise. Come ho già messo in evidenza in un post di qualche giorno fa, la picola regione del centro-Italia stuzzica i voraci appetiti di molti imprenditori del settore energetico. Le cause di questo assalto al fortino, la situazione sta assumendo questi connotati, sono varie e per lo più riconducibili allo scarso peso politico della regione e alla sua perifericità mediatica. Il Molise è una regione che non appare spesso sui giornali nazionali, probabilmente perchè non accade nulla di appetibile giornalisticamente, ha un territorio per lo più vergine e i siti industriali riguardano solo la zona costiera, dove si trovano alcune grandi fabbriche. Inoltre l'inurbamento, specie nell'entroterra, è limitato e caratterizzato da piccoli paesi distanti l'uno dall'altro. Dunque c'è molta terra da sfruttare a scopo industriale, e dato che l'agricoltura, se non praticata aggregando grossi appezzamenti in grandi aziende o cooperative ormai non è più affatto remunerativa, si può ben capire la facilità con cui gli emissari delle aziende reperiscono terreni adatti alla produzione di energia.



Ma il problema più grande riguarda la capacità
della classe dirigente regionale di tutelare i propri cittadini elettori. Stiamo parlando di una classe politica vecchia e decrepita, ancora completamente legata ad un costume politico che fa della sudditanza al partito di riferimento il proprio modus operandi. Non c'è stato un rinnovamento dei ranghi dirigenziali, e questo ristagno, come d'altronde è avvenuto per la Dc in ambito nazionale, ha provocato storture e cristallizzazione di posizioni e incarichi. Una prova di questo è il maxiprocesso di Larino riguardante la corruzione e la frode nella sanità regionale, facente capo all'inchiesta black hole. Nella rete degli investigatori sono caduti molti nomi noti della politica e dell'establishment regionale.



Questa incapacità di far sentitre la propria voce, quando lo Stato decide di costruire infrastrutture sul territorio regionale, si traduce in un sentimento di frustrazione che si sta facendo largo tra la popolazione. In Molise sono stati presentati, fino a marzo 2007, 661 progetti per l'installazione di impianti eolici, di cui 320 sono stati approvati, per una capacità produttiva che a oggi è di 35,4MWh all'anno. Un enormità per una regione che consuma molto meno. Con questo non voglio assolutamente dire che una regione deve produrre per quanto consuma. Lo spirito di solidarietà nazionale induce, come il Molise ha sempre fatto, a disporre risorse in eccedenza a beneficio delle altre regioni. Detto questo, però, non è giustificabile un accanimento, come quello che sta subendo il territorio molisano, che sta sconvolgendo sia il paesaggio che l'ambiente. Spuntano pali eolici dappertutto come funghi, stimolati anche da una legislazione, in merito alle concessioni d'impianto, altamente insufficiente o quantomeno sbagliata. Paradossalmente, per quanto riguarda il discorso del concorso popolare alle decisioni, attualmente è possibile per un emissario di un azienda del settore energetico trattare direttamente con il contadino proprietario della terra. Le offerte che vengono fatte dalle aziende sono talmente vantaggiose, si parla di 8mila euro l'anno per interdire solo 50m quadrati di terreno, che molte persone vanno alla ricerca di questi emissari, dato che coltivare un ettaro di terra non frutta che mille euro l'anno, e ci si ammazza di lavoro.



Insomma, ciò che la gente chiede è di essere messa al corrente di decisioni che la interessano da vicino. Non per poter organizzare meglio le proteste, come molti potrebbero pensare, ma per poter concorere alla realizzazione del progetto. Naturalmente, come nel caso delle 5 centrali a biomasse progettate nella Valle del Trigno, non si può chiedere ad una comunità, di fronte al futuro della propria salute, di fare spallucce e accettare supinamente di fare arricchire pochi a discapito di molti. Dopotutto un modello decisionale partecipato, in alcuni casi, può rendere meno amara la pillola da ingoiare, o addirittura, con una buona informazione sui progetti, entusiasmare una popolazione troppo spesso vista come intralcio, ma che in realtà a solo a cuore la propria sorte e quella del paese.


domenica 15 marzo 2009

Usa. Obama: via libera ai finanziamenti federali per la ricerca sulle staminali



Barack Obama, neopresidente degli Stati Uniti d'America, ha finalmente iniziato a demolire l'operato del suo predecessore George W. Bush. E la prima picconata è arrivata su uno dei temi più sensibli dal punto di vista etico: le restrizioni ai finanziamenti federali per la ricerca sulle cellule staminali. "L'America guiderà il mondo verso le scoperte che questo tipo di ricerca potrà un giorno offrire": sono state queste le parole scelte da Obama per suggellare la sua decisione. Musica per le orecchie di tutti coloro che, affetti da patologie attualmente incurabili, vedono in questo tipo di ricerca una speranza di guarigione. Invero Bush, con la legge emanata nel 2001, non aveva vietato l'uso delle staminali a scopo di ricerca, ma con la preclusione dei finanziamenti federali aveva difatto bloccato la sperimentazione, che da quel momento aveva potuto contare soltanto sulle limitate risorse dei singoli stati federeali, in particolare la California. Fondamentale è che uno degli stati più all'avanguardia nel campo delle sperimentazioni mediche, e con disponibilità economiche precluse ad altri paesei più piccoli, si faccia portabandiera di questo tipo di studi. Naturalmente bisogna stare ben accorti a non cadere in facili trionfalismi e false speranze di cure per ogni genere di male. Le ricerche sulle staminali sono solo agli inizi e per adesso le percentuali di riuscita sono ancora basse.


La decisione di Obama ha scatenato le polemiche dell'ala cattolica più conservatrice e delle autorità ecclesiastiche: " una triste vittoria della politica sulla scienza e l' etica", ha dichiarato il cardinale di Filadelfia, Justin Rigali, presidente del comitato "Pro Life" dei vescovi Usa. Per la chiesa cattolica gli embrioni sono del tutto equiparati ad un essere umano, con tutto ciò che ne deriva in fatto di diritto alla vita. Al tema delle staminali l' Osservatore Romano ha dedicato un lungo e polemico articolo, in cui si ricorda la posizione presa dalla Conferenza episcopale Usa nell' assemblea plenaria di Orlando in primavera: "Sembra innegabile - avevano scritto i vescovi - che una volta oltrepassata la fondamentale linea morale che ci impedisce di trattare gli esseri umani come meri oggetti di ricerca, non ci sarà più un punto di arresto». L' organo di stampa del Vaticano ribadisce che la ricerca sulle staminali embrionali è "profondamente immorale e superflua, in considerazione dei recenti sviluppi delle ricerche scientifiche".


E' proprio sulla sottile linea di demarcazione che scevera la vita compiuta di un essere umano, dotato di cervello e di un corpo ben riconoscibile, da quella di un embrione, che non ha ancora un cervello e un corpo, che si è combattuta la cruenta battaglia tra sostenitori e avversari della ricerca sulle staminali। Su questo tema la varie parti si sono profuse in un diluvio di demagogia, con il risultato che spesso il merito della questione, la cura dei malati, ha ceduto il passo alle questioni teologiche e di principio, anche e soprattutto in Italia. Nel nostro paese ,qualche anno fa, è stato addirittura indetto un referendum, nel quale i cittadini sono stati chiamati ad esprimere la loro posizione sull'opportunità di intraprendere ricerche sulle staminali. Vinse il fronte del no, guidato direttamente dall'establishment cattolico, alla quale diede voce in sede di dibattito parlamentare, per questioni di mero opportunismo politico, lo schieramento di destra. In particolare la destra radical chic, facente capo al giornale Il Foglio e al suo direttore, Giuliano Ferrara, fece della questione il proprio cavallo di battaglia.



L'intera campagna referendaria sulle staminali in Italia è stata inficiata da una sostanziale disinformazione in merito alla questione. I cittadini sono stati chiamati a scegliere su un argomento di grande contenuto etico, ma che allo stesso tempo esigeva un estrema consapevolezza scientifica, difficilmente proponibile ad un pubblico non avvezzo alla materia. L'informazione prodotta sulla questione, invece, ha eluso l'ambito prettamente scientifico e tecnico, e si è concentrata solo sulla speculazione filosofica ed etica. Ancora oggi sono pochi gli italiani che, se interpellati sul tema, sono in grado di dare una risposta sensata. Su determinate materie, come questa, non può che essere il parlamento l'unico preposto alla scelta. Altrimenti a cosa serve?



In tutto ciò è difficile non sottolineare la grande incoerenza che alberga nella posizione di alcuni dei più ferventi "paladini della vita". Come appunto il governo attualmente in carica, che sul caso Englaro ha dato prova di un enorme distacco da quello che viene chiamato "senso delle istituzioni", o come l'ideologo del partito contro l'aborto, Giuliano Ferrara. Questi grandi umanisti e difensori del genere umano si sentono toccati, scioccati dalla morte di migliaia di embrioni per i quali darebbero la vita, ma ne ora ne in passato si sono fatti scrupoli ad appoggiare guerre e invasioni. Certo, nel nome dell'occidente e contro quei satanassi di musulmani, ma nelle quali sono morte centinaia di migliaia di persone. Una domanda: sono vite anche quelle, o devo dire "erano" vite anche quelle? Chissà cosa dice la loro grande cultura umanistica in proposito. Attendo con ansia che qualcuno mi dia una risposta. C'è qualcosa che non mi è chiaro.

sabato 14 marzo 2009

Open source: diritti in rete (articolo pubblicato su Notizie Verdi il 12/03/2009)


Flessibile, economico e affidabile: l'Open source è la risposta alle esigenze quotidiane di un mondo sempre più informatizzato। Rispetto ai software commerciali dove è il marketing a definire le caratteristiche del prodotto, il software libero permette agli utenti di deciderne l'evoluzione in base alle diverse necessità। «I vantaggi sono molti - spiega Marco Pantò, presidente della Linux Shell Italia -। L'open source garantisce trasparenza e sicurezza, il prodotto viene costantemente monitorato da una comunità di programmatori liberi e indipendenti। Rispetto al software proprietario, è regolamentato dal copyleft, una licenza che lascia agli utenti i diritti di utilizzo»। Le sue applicazioni sono dunque modellate sulle esigenze segnalate da chi utilizza il programma। Se emergono dei problemi è possibile risolverli velocemente, il codice sorgente (l'insieme delle istruzioni necessarie al funzionamento del software) è aperto e qualsiasi programmatore può intervenire.


L'open source rappresenta inoltre una soluzione economica: nel 2008 lo Stato italiano ha speso 274 milioni di euro in licenze e manutenzione. «Con questo tipo di sistemi i costi si ridurrebbero significativamente - continua Pantò -.Viene meno qualsiasi obbligo di sottoscrivere contratti di assistenza, che il più delle volte sono a esclusivo beneficio del produttore. Le licenze costano molto e non danno nulla in cambio, se per un qualsiasi motivo perdi il file su cui stavi lavorando, non hai diritto ad alcuna tutela». È del 2000 la direttiva della Comunità europea che auspica l’utilizzo dell’open source nell’ambito della pubblica amministrazione. «Il problema è etico - sottolinea Pantò -. Quando un ufficio pubblico mette in rete un documento usando un formato proprietario, presuppone e obbliga il cittadino a possedere una copia ufficiale del programma per leggerlo. Lo Stato dovrebbe invece pubblicare documenti in un formato aperto senza favorire alcun privato, che a conti fatti è sempre lo stesso: Microsoft». Il Centro Nazionale per l'informatica nella pubblica amministrazione (Cnipa), che redige ogni anno un rapporto sullo stato dell'arte in ambito statale, ha più volte segnalato la validità del software libero dando indicazioni sul da farsi. «Il mondo aperto della comunicazione non può rimanere prigioniero di una visione feudale della proprietà» diceva Gilberto Gil e se la condivisione delle conoscenza è alla base dello sviluppo, porte aperte all'open source.


martedì 10 marzo 2009

Ancora centrali in Molise




Da un pò di tempo il Molise
è la meta più ambita da chiunque voglia costruire una centrale elettrica, o più in generale produrre energia. Qualcuno ricorderà, qualche mese fa, le feroci polemiche e la mobilitazione civica scaturite dalla decisione d' impiantere, al largo delle coste molisane, la più grande centrale eolica off-shore d'Europa. Il progetto fu inizialmente bloccato, durante il governo Prodi, dall'allora ministro delle infrastrutture, Antonio Di Pietro. Ma fu poi ripreso dall'attuale esecutivo nei primi mesi del mandato, per essere definitivamente abbandonato in seguito al palese disequilibrio tra vantaggi (produzione di energia elettrica e resa occupazionale) e costi (impatto ambientale).


Ora si parla di costruire nella valle del Trigno, in un tratto di 15km compreso tra Montefalcone del Sannio e Mafalda, ben 5 centrali alimentate a biomasse. Gli impianti "dovrebbero" funzionare con gli scarti della lavorazione agricola, e tutto il materiale che rimane a terra nel sottobosco (sterpaglie, rami secchi, foglie etc.). Questo in teoria. Nella realtà invece la centrale che sorgerà a Mafalda, che in ordine temporale è la più prossima, dovrà avere una potenza di 20MWh, e per raggiungere una tale produzione brucerà qualcosa come 100.000 tonnellate di materiali all'anno. Chiunque conosca quella zona sa bene che non c'è la possibilità reale di raggiungere una tale quantità di combustibile facendo affidamento soltanto su scarti agricoli, e rifiuti del sottobosco.


Da dove arriverà allora il combustibile? E' questa la domanda che si pongono con sempre più insistenza gli abitanti della zona. Memori di altre esperienze, in altre regioni d'Italia, nella quale il carburante usato è tranquillamente diventato i rifiuti solidi urbani, con i comprensibili danni per la salute dei cittadini, anche a Mafalda le persone hanno organizzato una civile, ma decisa, protesta nei confronti del sindaco. Si perchè il primo cittadino mafaldase è il principale sponsorizzatore del progetto. A quanto pare la salute dei suoi paesani, che dovrebbe essere la prima preoccupazione di un delegato popolare, non è al primo posto nei pensieri di Nicola Valentini (sindaco di Mafalda). Ma c'è dell'altro.


Il sindaco è anche il presidente della locale filiale della Banca di Credito Cooperativo della Valle del Trigno, principale finanziatrice del progetto. Sembrerebbe un palese caso di conflitto d'interessi, ma siamo nel paese in cui questo non è un problema, anzi è un vantaggio. I cittadini di Mafalda, comunque, non si sono limitati a contestare la realizzazione dell'opera, dando corso ad un attacco di sindrome nimby (non nel mio giardino), senza proporre un alternativa. Infatti la proposta del comitato, è costruire al posto delle centrali a biomasse, dei parchi fotovoltaici o eolici, che con le moderne tecnologie danno delle discrete rese senza il problema delle emissioni. Queste si sono fonti rinnovabili e meritano di eseere incentivate. Al contrario delle biomasse, che vengono derubricate sotto la voce "rinnovabili", ma che in realtà bruciano materiali e dunque non vengono alimentate con risorse continue e inestinguibili, come il sole e il vento.


I cittadini di Mafalda e di tutta la Valle del Trigno andranno avanti nella loro lotta fino a quando non verranno fugate le loro preoccupazioni, e sarà accolta la loro istanza di guardare al futuro senza avere ad un palmo da casa un nuovo ecomostro.

La miopia della giustizia internazionale e la tragedia del Darfur- Immagini-


La miopia della giustizia internazionale e la tragedia del Darfur.


Il tribunale penale internazionale dell Aja ha spiccato un mandato di cattura nei confronti di Omar Hassan al-Bashir, presidente del Sudan. Dal 2003 nel paese subsahariano imperversa un cruento conflitto che vede contrapposti i Janjawid, nomadi di etnia Baggara (miliziani islamici a cavalllo), a le altre tribù di etnia non Baggara dedite all'agricoltura. La guerra, che ben presto si è tramutata in un'emergenza umanitaria, ha fatto registrare finora circa 400.000 vittime, per lo più morti per fame, sete e malattie. La leggittimità del provvedimento, nato da una richiesta del procuratore Luis Moreno-Ocampo, non è in discussione. Bashir neanche troppo velatamente ha sempre appoggiato i Janjawid, che nel corso degli anni, e proprio grazie all'appoggio governativo, hanno perpetrato un orrendo genocidio della popolazione non Baggara.


In discussione è l'utilità di un simile provvedimento. Come si è già potuto sperimentare in altri casi simili, i despoti, colpiti da questi mandati internazionali, non vengono quasi mai perseguiti finchè sono al potere. L'unico riscontro pratico si è avuto nella decisione di Bashir di espellere tutte le organizzazioni umanitarie presenti nel paese, le uniche dedite alla cura di coloro che fuggono dal conflitto, stipati in condizioni inumane nei campi profughi. A questo punto una domanda sorge spontanea e prepotente: chi fornirà loro il cibo, l'acqua e le pur scarse medicine, necessarie alla sopravvivenza? Il procuratore Ocampo? Credo di no.


Una soluzione a questa immane tragedia va trovata! Ma non può che essere una soluzione politica, e non giudiziaria. Perchè il problema, anche se vede dei risvolti importanti in questioni etnico-religiose, è eminentemente politico. Questa lettura ha acquisito ancora più pregnanza da quando nella regione, ricca di materie prime, è entrata con veemenza la Cina. E proprio la Cina, insieme all'Unione Africana, ha condannato fermamente il mandato di cattura. Se in passato un intervento militare, o una forte azione diplomatica statunitense erano opzioni praticabili, con la situazione attuale è impensabile di voler risolvere la questione senza coinvolgere la Cina. Il colosso asiatico, ormai da anni, non segue più una linea ideologizzata in politica estera, e proprio alla pragmaticità della Cina e alla sua capacità di fare affari si deve aggrappare la comunità internazionale, che non potrà però esimersi dall'offrire qualcosa.


Purtroppo attualmente l'unico paese che ha il peso politico necessario per intavolare una trattativa con la Cina, gli Stati Uniti, sono alle prese con una crisi economica che assorbe totalmente l'azione del neopresidente Obama. In queste condizioni, inevitabilmente, la guerra del Darfur torna a viaggiare sottotraccia. Lo si vede anche dai giornali, quelli italiani in testa, che dedicano alla questione poco più che un trafiletto nelle pagine interne. Ma da Obama, di origini africane e dunque sensibile alle questioni della sua terra di origine, ci si aspetta qualcosa, l'Africa si aspetta qualcosa. Fondamentale è non spegnere i riflettori su questa regione che rischia di diventare la nuova faglia di divisione tra occidente e islam. Molti osservatori e intellettuali infatti sostengono che gli accadimenti di questi anni nell'africa subsahariana, sono paragonabili alle vicende che sconvolsero il medioriente nella metà del secolo scorso. E' importante dare visibilità alla tragedia che gli esseri umani del Darfur stanno vivendo. Non vi possono essere eccidi di serie a e altri di serie. Ogni genocidio è un onta per il genere umano tutto.



domenica 8 marzo 2009

Terra di nessuno, di Leed Eric J: la guerra nella mente dei combattenti


Quanto può essere difficile combattere un nemico per cui non si prova odio ne rancore? Ma che al contrario diventa l'unico essere al mondo, insieme ai tuoi commilitoni, che può comprendere la pena e l'umiliazione che stai sopportando? A questa e ad altre domande ha cercato di dare una risposta Eric Leed, storico e intelletuale americano. Nel suo libro, Terra di nessuno, l'elemento centrale della storia è l'uomo: con le sue paure, le sue ansie e la sua inadeguatezza di fronte ad un evento dalla grandezza incommensurabile come il primo conflitto mondiale. La Grande Guerra, troppo spesso raccontata dal punto di vista dei governi e dei sobillatori del nazionalismo europeo, riacquista la prospettiva che più le è consona, quella dei combattenti. Il libro, che per me è stata una vera e propria rivelazione, pone l'accento sull'alterità del primo conflitto altamente tecnologico rispetto alle guerre che lo hanno preceduto, e fa luce su molti aspetti che purtroppo hanno ceduto il passo alla mitizzazione. Il mito del guerriero, la guerra come evento rivoluzionario "positivo" nella vita di coloro che ne hanno preso parte e come contesto nella quale l'essere umano recupera la propria veracità, troppo spesso appannata dalla modernità alienante: sono le fandonie che i governi, impegnati a dare un senso all'immane carneficina, ci hanno raccontato. Ancora oggi molti stati belligeranti non hanno reso note le cifre dei disertori. Additati in patria come vili e feccia della quale liberarsri. Ma la condizione di vita nelle trincee per coloro che rimanevano comodamente a casa non è concepibile. Riecheggiano ancora nelle parole dei grandi statisti, l'onore, il coraggio e l'estremo sacrificio di uomini che si trovarono di fronte ad un mostro senza volto, che per voce aveva il rumore assordante del cozzo dei materiali e per odore gli effluvi della carne bruciata. Fu davvero coraggio? Cosa vi è stato del mito del guerriero in quell'immane carneficina? O l'andare incontro alla morte nella Terra di nessuno era l'unica opzione rimasta a uomini non più tali? Leggete questo libro e molte sciocchezze che fino ad ora ci hanno raccontato si dipaneranno davanti a voi come uno schiaffo.


Una piccola recensione del libro con la possibilità di acquistarlo:
http://www.mulino.it/edizioni/volumi/scheda_volume.php?vista=scheda&ISBNART=12037

sabato 7 marzo 2009

La fantastica gufata di Mourinho


Josè Mario dos Santos Mourinho. Comunemente conosciuto come Josè Mourinho: "The SpecialOne". Si, perchè il mago di Setubal è un tipo davvero speciale. Lo ha dimostrato ancora in questi giorni, quando ha deciso di strigliare il sonnacchioso e formale mondo del calcio. Non che non lo avesse già fatto, nei mesi passati bastava che aprisse bocca, che si trovasse un microfono davanti ed erano dolori per i suoi avversari. Questa volta però si è preso una bella responsabilità. Lasciamo stare le feroci polemiche del dopopartita con la Roma. Rigore, non rigore, buona prestazione e quant'altro. Nell'ultima infuocata conferenza stampa "Mou" ha fatto una cosa assolutamente vietata nel mondo del calcio, almeno a livello formale. Ha gufato su tutti i suoi avversari più prossimi. "Zero titoli a Roma, zero titoli a Juve, zero titoli a Milan". Sono state queste le sue parole, e bastava guardare le facce dei giornalisti presenti nella sala stampa per rendersi subito conto dell'imprevedibilità dell'esternazione. Naturalmente i commenti degli allenatori delle squadre in questione sono stati di condanna. Ma l'allenatore dell'Inter è la persona che più assomiglia a un Caterpillar. Spiana senzà guardarsi indietro, e non tiene conto dell'opinione dei suoi nemici. E di nemici "Mou" ne ha molti, e tutti vorrebbero vederlo col grugno nella polvere. Ma è proprio nella sua fantastica capacità di tirarsi dietro gli improperi di chi non lo stima che risiede la sua rivoluzione. Mourinho è un uomo che vive d'intensità e se il mondo che lo circonda non è "spinto" non può dispiegare tutta la sua potenza comunicativa. Il gusto per la provocazione, per la rivalità non banale, per l'anticavallerismo fa parte del suo mestiere d'allenatore, tanto quanto la rifinitura del sabato. Il mondo del calcio italiano, tranne che nel suo periodo d'oro, gli anni di Sivori, Herrera e Rocco, ha sempre mantenuto una ben definita accortezza nei rapporti tra le squadre. La rivalità tra i grandi team del campionato è sempre stata accessa ma comunque informata ad un sostanziale "volemose bene". Mourinho ha riportato l'antagonisno ai livelli degli anni sessanta, quando i personaggi simbolo dei vari club spesso si odiavano. Purtroppo oggi bisogna stare attenti anche ai contraccolpi sulle curve. Le persone che vanno allo stadio sovente si lasciano influenzare negativamnete, e caricare troppo gli animi non è saggio. Ma almeno per quanto mi riguarda gli episodi peggiori degli ultimi anni non attendono agli stati d'animo dei protagonisti della pedata.
Ora lo SpecialOne deve soltanto vincere, campionato e champions. Solo così una parte minoritaria dell'Italia calcistica potrà godere fino al parossismo, mentre l'altra, ben più corposa, dovrà mangiarsi le mani fino ai polsi. Daje Mou, facci godere.

venerdì 6 marzo 2009

La rivolta di Reggio

Video: documentario sulla rivolta di Reggio.

Parte 1 di 4

Parte 2 di 4

Parte 3 di 4

Parte 4 di 4



La rivolta di Reggio: una rivolta di popolo.



14 luglio 1970. A Reggio Calabria esplode una violenta e sanguinosa rivolta popolare in seguito alla decisione, del governo di centrosinistra sostenuto dalla Dc e dal Psi, di assegnare il capoluogo di regione a Catanzaro, frustrando le legittime aspettative dei reggini। Quella decisione, che negava un sacrosanto diritto della città sullo stretto, venne vista dalla gente comune come un ennesimo smacco, una truffa: il reiterato menefreghismo del potere centrale, che in quella occasione “doveva” essere contestato। Per popolazione, storia e cultura, nessuna città calabrese avrebbe potuto assurgere al rango di capoluogo al posto di Reggio Calabria. Ma in Italia si sà, il banale non è mai tale e lo stesso vale per l'eccezionale. Quello che a tutti o quasi i calabresi sembrava scontato, non aveva fatto i conti con due elementi che al tempo dei fatti furono determinanti: lo scarso peso del referente politico reggino - il Dc Sebastiano Vincelli- in seno alla coalizione di governo; e la ben più corposa influenza del segretario del Partito Socialista ed ex ministro dei lavori pubblici, Giacomo Mancini, del ministro della pubblica istruzione, il democratico cristiano Riccardo Misasi e del deputato Dc Antoniozzi, cosentini i primi due, catanzarese il terzo. Non è difficile immaginare come, in sede di governo, si sia arrivati all'assurda decisione di non assegnare il capoluogo a Reggio, tenendo conto del particolare interesse dei rappresentanti, vicini a Catanzaro.


In quel periodo il mezzogiorno d'Italia e la Calabria in testa, erano alle prese con una profonda crisi economica, sociale e di rappresentanza politica। La carenza di lavoro - non più di 5।000 persone in tutta la regione erano stabilmente impiegate in grosse aziende - aveva generato un enorme flusso di migranti verso il nord Italia e l'estero, comportando lo spopolamento delle zone interne. A Reggio Calabria, 12mila persone vivevano ancora in delle casupole che erano poco più che baracche, molte delle quali risalenti al grande terremoto del 1908. A ben vedere e senza esagerare, si può affermare che la Calabria era tra le regioni più povere e dimenticate di tutta la penisola. La prospettiva del capoluogo tanto attesa, si sarebbe dovuta concretizzare, in termini occupazionali, con numerosi posti di lavoro nel campo della pubblica amministrazione. La vulgata comune che derubrica la rivolta di Reggio a mero campanilismo è dunque infondata. Ma purtroppo nel corso degli anni si è spesso sotteso a questo aspetto, fino ad arrivare alla definizione di rivolta “fascista”. Si, perchè di questo oggi si parla, ed è questo che la maggior parte delle persone pensa dei fatti di Reggio.


Quando la contestazione scoppiò era molto lontana l'idea di una sommossa violenta. Il destino di dieci mesi d

i lotta si determinò all'indomani della decisione che penalizzava Reggio: un gruppo di giovani in segno di protesta nei confronti del governo cercò di occupare la stazione ferroviaria. La polizia r

ispose con inaudita violenza, provocando molti feriti e arrestando decine di persone. Da quel momento la situazione, già infuocata dal risentimento popolare per le condizioni sociali disperate in cui versava la città, si caricò dell'ulteriore e determinante disprezzo per un autorità pubblica, che oltre a non far niente per migliorare le condizioni di vita, aggrediva i manifestanti sostanzialmente pacifici. La situazione sfuggì definitivamente di mano alle autorità quando, nella stessa giornata, una folla inferocita si riversò in Piazza Italia per chiedere il rilascio degli arrestati, e la polizia ebbe la splendida idea di disperdere l'assembramento con il manganello. Da quel momento la città divenne un inferno: barricate per le strade, questure assaltate, uf

fici pubblici dati alle fiamme e tanti tanti feriti. Le contestazioni furono avallate dal sindaco Battaglia (Dc), mentre tutti i partiti di sinistra, ad esclusione del Psiup, in linea col governo condannarono fermamente i sommovimenti. Dapprincipio anche l'estrema destra, con l'Msi locale in testa, definì i manifestanti teppisti e cialtroni, ma quando il comitato d'azione locale finì sotto il controllo del segretario generale della Cisnal (sindacato vicino all' Msi), Francesco detto “Ciccio” Franco, si schierò con la sollevazione. Innegabili a questo punto le colpe della sinistra, rappresentata in primis dal partito comunista che lasciò nelle mani dell'Msi le sorti della rivolta. I fascisti infatti non si fecero scappare l'occasione di acquisire legittimità politica, anche a livello nazionale, e appoggiarono Ciccio Franco. E' da questo momento che il movimento reggino, fino ad allora assolutamente apolitico e spontaneo, prende il nome dei “boia chi molla”, rinverdendo l'omonimo moto Dannunziano che occupò Fiume subito dopo la Grande Guerra. La completa estraneità del movimento - che inglobava in unico e spontaneo anelito di rivalsa, commercianti, operai e donne di ogni estrazione politico/sociale - alle logiche di partito e di schieramento politico, è confermata dall'appartenenza alla Cgil della prima vittima della polizia, Bruno Labate. Mentre la destra calabrese cavalca la rivolta, la sinistra locale e nazionale si trova spaccata su tutti i fronti. Il Partito Comunista condanna le agitazioni e invoca il ripristino dell'ordine pubblico. Emblematico è l'intervento di Alfredo Reichlin che fa un netto distinguo tra la lotta reg

gina e quella di Avola e Battipaglia, sostenendo che a Reggio si è venuto a creare “un moto eversivo di destra, organizzato e diretto consapevolmente, da un blocco di forze reazionarie impaurite a morte dall' avanzata difficile, faticosa, ma certa, di una situazione politica nuova anche in Calabria”. La miopia politica del gruppo dirigente comunista è troppo palese per non suscitare qualche sospetto. E l'ambiguità viene subito colta dal gruppo de il Manifesto, nettamente contrario alla posizione del Pci. Per mezzo della penna di Valentino Parlato, infatti, il giornale scissionista corrobora la tesi della trasversalità politica del movimento, sostenendo che non è necessario “ molto sforzo, né ricerca di precedenti storici, per sostenere che a Reggio vi è stata soprattutto, una esplosione di collera popolare. Nell’assenza, o nell’estremo logoramento di qualsiasi organizzazione di classe, questa esplosione è stata irretita in quel complesso di complicità parassitaria e reazionaria che domina la cosiddetta società civile delle città meridionali, ed ha avuto una gestione di destra. [...] Reggio può rientrare nella cosiddetta strategia della tensione [...], ma credere che per tre mesi migliaia di persone si siano mosse a Reggio solo per un complotto di destra è contro ogni logica”. Parlato inoltre rincara la dose con un’accusa ancora più grave verso gli ex-compagni comunisti, testimoniandone la doppiezza e portando alla luce il piano della strategia politica del Pci nei confronti del Psi। Secondo tale interpretazione dei fatti, il Pci per favorir

e il dialogo con il partito socialista, in Calabria rappresentato dal ministro Mancini, avrebbe “sacrificato” il proprio impegno a Reggio appiattendosi su posizioni filo-governative, invocando il ripristino dell’ordine pubblico.


Dalle indecisioni della sinistra, l'Msi ricavò, in termini elettorali, un notevole vantaggio inizian

do a volare vertiginosamente su picchi superiori al 50 per cento - mentre fino a poco prima, e su scala nazi

onale, quel movimento a stento raggiungeva il 4 - grazie alla figura di Ciccio Franco, oggi ricordato con una stele sul Lungomare che è il “Chilometro più bello d’Italia”। La rivolta di Reggio terminerà nel febbraio del 197

1 quando il Presidente del Consiglio Emilio Colombo annuncia che a Reggio Calabria sorgerà il quinto centro siderurgico nazionale con un investimento di tremila miliardi e oltre diecimila posti di lavoro. La città e i Reggini accettano la proposta, e dopo pochi giorni l’esercito entra in città con i carri armati che sgomberano le strade dalle barricate diventate in alcuni casi veri e propri muri innalzati dai rivoltosi. Qualche anno dopo, nel 1975, si terrà un processo contro gli animatori della rivolta.

Ciccio Franco, diventato nel frattempo senatore missino, e i suoi seguaci, verranno ritenuti colpevoli d'istigazione a delinquere, apologia di reato e diffamazione a mezzo stampa, e condannati a un anno e quattro mesi di reclusione.



Si concluse così, non senza strascichi, una delle vicende più complesse ma al tempo stesso più spontaneamente popolari della nostra storia repubblicana. Purtroppo ancora nello scorso gennaio, in occasione della visita a Reggio del Presidente Giorgio Napolitano, Pietro Mancini, figlio di Giacomo Mancini, l'ex segretario del Psi, bollava i moti di Reggio come una rivolta “fascista”. E se ancora oggi vengono usati simili epiteti per qualificare quei fatti, molte delle cause sono da ricercare nella scarsa lungimiranza espressa all'epoca da gran parte della sinistra, che nel corso degli anni si è inoltre macchiata di un becero ostruzionismo praticato nei confronti della ricerca storica, unica deputata alla discoperta della verità. Voglio concludere questo mio breve scritto con le parole di Pierre Carniti, che sul palco della Conferenza del Mezzogiorno, tenutasi nel 1972 a Reggio Calabria, davanti un mare di operai accorsi da tutta Italia per testimoniare la propria solidarietà alle genti della rivolta, in un ideale riconsegna della città al popolo reggino e meridionale dirà: “ Oggi non sono calati a Reggio, amici e compagni di Reggio, i barbari del Nord, ma con gli impiegati e con gli operai del Nord sono tornati a Reggio i meridionali!"