mercoledì 30 settembre 2009

Lazio:prendevano mazzette per rilasciare falsi permessi per cave, 6 persone agli arresti

Prendevano mazzette fino a 20mila euro per rilasciare falsi permessi ambientali per l'attività e la messa in sicurezza di cave. Sono sei i funzionari pubblici arrestati tra Viterbo e Roma nell'ambito dell'inchiesta iniziata un anno fà dalla Procura della Repubblica di Viterbo. Tra questi Giovannino Fatica, architetto della Soprintendenza ai beni architettonici e paesaggistici di Roma, Rieti e Viterbo e il suo collaboratore Antonio Di Ciccio. Agli arresti anche il capo servizio settore cave del comune di Viterbo Massimo Scapigliati, e l'addetto all'ispettorato di polizia mineraria ed energia della regione Lazio, Giuseppe De Paolis. Gli imprenditori al centro degli episodi di corruzione sono Domenico Chiavarino e il figlio Dario, residenti a Celleno, in provincia di Viterbo, i quali, per ottenere un'autorizzazione finalizzata alla messa in sicurezza di una cava, avrebbero pagato tangenti a vari funzionari pubblici. Gli episodi di corruzione avvenivano nell'ufficio del funzionario del comune di Viterbo, Massimo Scapigliati. Alcuni passaggi di mazzette sono stati documentati dalle forze dell'ordine con microcamere e microfoni.

Questo episodio è solo un ulteriore campanello d'allarme sulla situazione delle cave nel Lazio. Con un regolamneto che latita, o per lo più è assente, si lascia troppa discrezionalità agli uffici comunali, provinciali e regionali, che si ritrovano in mano la chiave di volta di un bussiness a sei zeri. Un bussiness che va, appunto, regolamentato da una legge nazionale più restrittiva, e controllato dalle forze dell'ordine preposte: corpo forestale dello Stato e Polizia mineraria, che non è altro che una pantomima priva di ogni efficacia. Noi avevamo già denunciato tutto questo e continueremo a farlo con altre inchieste sempre più puntigliose e dettagliate.

Video che documenta la presenza di acqua sorgiva sul piazzale di cava, nel sito minerario di località "Le Greppe" (Comune di Acquapendante).

lunedì 28 settembre 2009

Basalto, le miniere dei nuovi predatori (con foto scattate Dal Cisa, che documentano la perdita di acqua sorgiva)




Pubblicato su Terra mercoledì 23 settembre 2009

Riporto integralmente questo articolo tratto da Terranews.it. Sul nostro Forum l'argomento era stato portato in evidenza già l'anno scorso con l'articolo Cave Cave. La pubblicazione on-line, finché ancora sarà possibile, serve almeno a tentare di informare chi vuole essere informato. Peccato che nel territorio bolsenese la tutela ambientale sia spacciata da molti come privazione della libertà...

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Basalto, le miniere dei nuovi predatoriInviato da redazione il Mer, 23/09/2009 - 13:42

Rossella Anitori e Luigi Menichilli

REPORTAGE L’altopiano dell’Alfina, al confine tra Lazio e Umbria, è in pericolo. L’intensa attività estrattiva sta minando il bacino idrogeologico e le potenzialità di sviluppo del territorio. Viaggio nel vuoto legislativo di un Paese alla mercè degli interessi speculativi di una potentissima casta.

Una minaccia incombe sull’Altopiano dell’Alfina.
L’immensa riserva di acqua potabile al confine tra Lazio e Umbria e un paesaggio di inestimabile valore, patrimonio della comunità, potrebbero essere compromessi dalle mire affaristiche di pochi imprenditori minerari. L’attività estrattiva, intensa nella zona, costituirebbe infatti un pericolo per il territorio. A stimolare gli appetiti dei cavatori è il basalto, una pietra di origine vulcanica impiegata nelle massicciate stradali e ferroviarie. Un business estremamente remunerativo a cui le amministrazioni locali non porrebbero alcun limite. Ruspe e macchine escavatrici hanno segnato in modo indelebile l’orizzonte: l’altopiano è costellato da crateri profondi anche 60 metri. A farne le spese l’industria turistica e l’integrità dell’acquifero, serbatoio di gran parte del territorio circostante e cardine dell’equilibrio idrico del lago di Bolsena.
«L’attività estrattiva è incompatibile con la conservazione della risorsa idrica».
Lo sostengono le associazioni ambientaliste e i comitati civici, che da anni si battono per la difesa dell’Alfina. «Il nostro non è allarmismo ingiustificato - sostiene Vittorio Fagioli, coordinatore del Comitato interregionale per la salvaguardia dell’Alfina (Cisa) -. Non si tratta di ipotesi ma di affermazioni documentate: per esempio, nel Comune di Acquapendente, nella cava di basalto de Le Greppe, in coltivazione da parte della ditta Gioacchini Sante sas, il materiale fotografico raccolto dal comitato mostra senza alcun dubbio la fuoriuscita costante e abbondante di acqua dal fondo del piazzale di cava, che dista poche decine di metri dai pozzi comunali di captazione dell’acqua potabile ». Si tratta di filmati e fotografie che coprono un arco temporale che va dall’aprile del 2006 al maggio del 2009, rilevazioni che sono state inserite in un esposto-denuncia recentemente presentato alle Procure della Repubblica di Viterbo e di Orvieto, ai Noe di Roma e di Perugia e al Corpo Forestale dello Stato di Acquapendente.

Ad accompagnarci a ridosso del perimetro della cava
è Marco Carbonara, presidente dell’Assal, l'Associazione per lo sviluppo sostenibile e la salvaguardia dell’Alfina. I mezzi sono fermi; numerosi rigagnoli d’acqua solcano l’area di scavo. «È come se questo territorio fosse una spugna imbevuta di acqua - spiega Carbonara -. Dove tagli, dove scavi esce acqua ». I cavatori però dicono che non hanno mai intercettato alcuna falda. «Sono 4 anni che seguiamo questa vicenda - aggiunge -. Faccio l’agricoltore e non ho tempo né soldi per fare questa battaglia. Eppure devo farlo. Sto portando avanti il lavoro che dovrebbero fare l’assessorato regionale all’Ambiente, il settore tecnico dell’ufficio di Acquapendente e, possibilmente, i sindaci di un paio di Comuni».


Sulla vulnerabilità dell’acquifero alfino
concordano numerosi studi idrogeologici, svolti sia da enti pubblici che da società private. «Siamo in presenza di un sistema a multifalda i cui acquiferi sono costituiti da colate laviche fessurate - sostiene il geologo Francesco Antonio Biondi, docente all’università della Tuscia -, con falde superficiali in interconnessione con quelle più profonde, e quindi a elevato rischio di inquinamento se esposte ad attività estrattiva. La contaminazione di una falda potrebbe portare, a caduta, all’inquinamento di tutte le altre». La perizia idrogeologica del professor Biondi trova conferma nelle valutazioni tecniche dell’Agenzia regionale per la salvaguardia ambientale (Arpa), che sottolinea «l’elevata vulnerabilità del sistema».


Il quantitativo di acque contenute nel bacino sotterraneo è enorme (stimabile per difetto in circa 1.000 litri al secondo) e la rilevanza dell’acquifero è interregionale: alimenta, infatti, sia i principali gruppi sorgivi umbri dell’area orvietana che il lago di Bolsena, bacino senza altri immissari, tanto che un diminuito afflusso di acqua dall’altopiano produrrebbe seri danni all’ecosistema lacustre e all’approvvigionamento di acqua potabile. «L’attività di cava è utile - conclude Biondi -, ma dovrebbe essere ragionata in un sistema più vasto di priorità». È sulla base di queste considerazioni che il Cisa richiede agli enti preposti di «assumere i necessari provvedimenti per la tutela della salute pubblica, e di escludere la possibilità di ampliamento e apertura di nuove cave sull’altopiano dell’Alfina».


In questo senso c’è un precedente importante:
una sentenza del Tar dell’Umbria (n. 554/2008) che ha bloccato l’autorizzazione, concessa dal Comune di Orvieto alla ditta Sece spa, per l’ampliamento della cava “del Botto” situata in località Canale, accogliendo il ricorso di un privato cittadino. Sentenza però che è stata prima sospesa e poi annullata dal Consiglio di Stato. Contro il Tar dell’Umbria si sono schierati la ditta escavatrice, l’Assocave e la Confindustria, appoggiati dal Comune di Orvieto e dalla Regione Umbria. «È vergognoso », commenta l’avvocato Fausto Cerulli, intervenuto ad opponendum, a tutela delle associazioni Wwf Italia, Legambiente Umbria, Amici della Terra e Ape, nel controricorso al Consiglio di Stato. Secondo Cerulli, quella del Tar dell’Umbria è stata una «sentenza storica», un fatto totalmente nuovo nella giurisprudenza amministrativa del Paese che ha riconosciuto il diritto di un cittadino a ricorrere in nome del rispetto dei valori ambientali e di tutela della salute garantiti dall’articolo 32 della Costituzione italiana.


«È incredibile che il Comune di Orvieto
e la Regione Umbria si siano schierate dalla parte del mero profitto individuale, facendosi carico degli interessi di una società privata, anziché far valere la salvaguardia dell’ambiente». Per l’avvocato «è evidente che sono entrati in gioco grandissimi interessi, perché se la sentenza del Tar avesse fatto stato avrebbe creato certamente problemi a tutti gli speculatori, facendo prevalere la tutela della salute e dell’ambiente sul profitto individuale». Nel controricorso Cerulli ha dunque esaltato il valore della decisione del Tribunale amministrativo facendo riferimento a una sentenza della Corte di giustizia europea (2/10/2001), che sancisce la «primazia» del bene comune su qualsiasi interesse economico privato.


«Paradossalmente conclude il legale
- il Consiglio di Stato motiva tra l’altro la propria decisione ammettendo che dare ragione al Tar avrebbe significato dichiarare incostituzionale la legge regionale umbra. Non aver sollevato la questione di incostituzionalità costituisce una gravissima inadempienza da parte del Consiglio di Stato». Nonostante questa battuta d’arresto, però, le associazioni non intendono gettare la spugna: «Stiamo valutando il ricorso alla Corte europea per i diritti dell’uomo - dice Fagioli -. Quello in corso è uno scontro tra il mero profitto e il bene comune, una battaglia di enorme importanza, non solo giuridica, ma soprattutto politica».


L’impegno a volte premia.
Soprattutto se viene riconosciuto come tale dall’intera comunità. È successo a Benano, un paese alle porte di Orvieto di appena 200 anime nel periodo estivo. «I residenti non ne hanno voluto sapere di aprire una cava - racconta Roberto Minervini, biologo marino all’università della Tuscia, impegnato nella lotta per la salvaguardia dell’Alfina -. A nulla sono valse le rassicurazioni dei politici locali. Ricordo ancora, sono stati giorni di fuoco. Il no arrivò durante un’assemblea cittadina tenutasi nella piazza del paese. Il fronte del dissenso fu talmente compatto che il sindaco promise di non dare parere positivo all’apertura della cava, nonostante Provincia e Regione avessero già espresso il loro assenso».


Vinta una battaglia a Benano, la guerra continua
però in tutta l’Alfina, dove sono già stati approvati gli ampliamenti di alcuni scavi. La legislazione in materia, infatti, non è omogenea, e in assenza di un piano nazionale, spetta alle amministrazioni locali il compito di gestire l’attività estrattiva. Da nord a sud del Paese il quadro è piuttosto vario. Il contesto delle regole è generalmente incompleto: alcune Regioni - tra cui il Lazio - non si sono mai dotate di un piano cava, altre invece lo hanno fatto, ma in maniera sommaria. Discrezionalità e interessi sono all’ordine del giorno e spesso le disposizioni normative in materia fotografano semplicemente le richieste dei cavatori.

«Il Piano regionale dell’attività estrattiva dell’Umbria
prevede il diniego all’apertura di nuove cave - spiega Minervini -, ma è di manica larga riguardo l’ampliamento dei siti già esistenti. E in questo modo da un lato limita la concorrenza escludendo nuove imprese dal business, dall’altro concede alle ditte che gestiscono una cava di effettuare ampliamenti enormi, portando uno scavo anche da 4 a 40 ettari. Poi c’è il problema della riambientalizzazione - aggiunge il biologo -. La legge prevede che le aziende debbano ripristinare le aree di scavo, in realtà però questo obbligo spesso non viene ottemperato e il territorio rimane irrimediabilmente danneggiato. A volte i cavatori, dopo aver esaurito l’area mineraria, non ritombano le cave, e solo in Umbria ci sono circa 640 siti non ripristinati. Altre volte, invece, vecchie cave dismesse non ritombate vengono utilizzate per successivi ampliamenti ».


Un business agevolato, dunque, ed estremamente conveniente.
Il giro d’affari del settore minerario raggiunge cifre da capogiro. In un’intervista rilasciata al portale web Myexl, Gianluca Pizzuti, imprenditore a capo della Basalti Orvieto srl, ammette che il fatturato annuo «di una cava di medie dimensioni può raggiungere la quota di 5-6 milioni di euro». Mentre le aziende di produzione e commercializzazione di prodotti estrattivi che raggruppano più cave possono arrivare a fatturare «anche 35-40 milioni». Un ricavato considerevole, specie se si tratta di una torta che viene spartita tra pochi: tra lavoratori dipendenti e indotto il numero degli occupati è estremamente basso e le licenze di escavazione hanno costi esigui. Mentre i danni per la comunità sono ingenti e irreversibili.


A essere compromesse non sono solo le risorse idriche
e l’ambiente naturale, ma anche l’industria turistica che fa del paesaggio il suo punto di forza. È quello che sta succedendo a Proceno, un piccolo borgo medioevale in provincia di Viterbo, primo Comune che la via Francigena incontra entrando nel Lazio, e sede di un castello del XII secolo perfettamente conservato, dichiarato monumento nazionale. Da qualche tempo le ruspe hanno iniziato a mangiare la terra, ingurgitando assieme al basalto le potenzialità di sviluppo dell’area. «In stridente contrasto con la vocazione del territorio e con la sua stessa economia, che ha fatto della sostenibilità una strategia vincente, l’amministrazione comunale ha concesso l’apertura di una cava», spiega Giovanni Bisoni, presidente del Comitato per la tutela e lo sviluppo compatibile del territorio Alta Tuscia di Proceno. Là dove soltanto tre anni prima il Comune voleva istituire un parco a difesa della valle dello Stridolone, un torrente considerato sito naturalistico di interesse interregionale.

La cava oggi sovrasta il pianoro e incombe sul paese
a meno di un chilometro dalle prime case. Il cambio di destinazione d’uso da territorio agricolo a estrattivo è avvenuto nel 2007. Giusto un anno prima la Basalti Proceno srl aveva presentato alla Regione Lazio un progetto di apertura di una cava nella stessa località. Progetto di cui la popolazione del piccolo borgo è venuta a conoscenza solo un anno dopo, quando la pratica era già in fase di avanzata approvazione. «A Proceno quella della cava non è solo un’intrusione visuale - dice Bisoni -. L’azione degli esplosivi utilizzati nel processo estrattivo potrebbero rendere estremamente instabile l’intero gradone lavico con ripercussioni negative per l’abitato, specie per le costruzioni più antiche». In risposta a quella che viene considerata una scelta imprudente da parte del Comune, la Sovrintendenza per i beni architettonici e paesaggistici delle province di Roma e Viterbo ha deciso di ampliare il precedente vincolo di tutela dal castello alla Rocca di Proceno.


«Questo provvedimento però non ha valenza retroattiva
- conclude Bisoni -, ma costituisce comunque un limite all’ampliamento del sito minerario». Dalla cava de Le Greppe a quella del Botto fino a Proceno, l’attività estrattiva sull’altopiano dell’Alfina deve essere regolamentata e contenuta. Le cave rischiano altrimenti di diventare un buco nero capace di annientare ogni energia che gli gravita attorno. Per scongiurare questo pericolo il Comitato per la salvaguardia dell’Alfina ha richiesto e ottenuto un tavolo di confronto interregionale che si terrà domani a Perugia. All’incontro a cui sono stati chiamati a partecipare, oltre le due Regioni Umbria e Lazio, le province di Terni e Viterbo e i Comuni di Orvieto, Porano, Bolsena, Proceno, Acquapendente, San Lorenzo Nuovo, Castel Viscardo, Castel Giorgio si cercherà di stipulare un accordo, un “contratto per l’Alfina”, per valorizzare le risorse ambientali e proteggere il territorio dalla voracità degli speculatori.