lunedì 8 febbraio 2010

Non è aria: inchiesta sui veleni della centrale di Torre Valdaliga nord a Civitavecchia (con video recapitati in forma anonima al forum ambientalista)



di Rossella Anitori e Luigi Menichilli per Left Avvenimenti

Il nemico è invisibile, e quando arrivi in città il pericolo non lo avverti. Le ciminiere della centrale a carbone rigurgitano nell’aria tonnellate di fumi inquinanti, e Civitavecchia si sveglia ogni mattina come nulla fosse. L’impianto Enel di Torre Valdaliga nord nonostante le polemiche é stato riconvertito a carbone e sulla testa di Alessio De Sio, l’ex sindaco di Forza Italia che disse sì al fossile, pende un’accusa di corruzione. Secondo il pm Cordova, che ha chiesto il suo rinvio a giudizio, il primo cittadino avrebbe dato parere favorevole alla riconversione della centrale termoelettrica in cambio di contratti e incarichi da parte dell’Enel. Questioni aperte e nodi irrisolti che segnano il destino di una città al centro di uno dei poli energetici più grandi d’Europa. «I cittadini pagano con la vita l’inerzia delle istituzioni». Non ha dubbi Simona Ricotti, responsabile del Forum Ambientalista locale e già consigliera comunale per Rifondazione Comunista. La qualità della vita a Civitavecchia non è delle migliori: oltre 7mila mw di potenza istallata per un totale di 3 centrali termoelettriche in meno di 20 chilometri, 2 a olio combustibile e una riconvertita a carbone, hanno generato un carico inquinante che ha messo a dura prova la popolazione.

«Un territorio che ha sopportato per 50 anni emissioni simili dovrebbe essere risparmiato dall’ulteriore peso ambientale del carbone - sostiene Mauro Mocci, di Medici per l’ambiente -. Studi vecchi e nuovi hanno contribuito a mettere in evidenza quello che già sapevamo: un eccesso di mortalità e ricoveri per patologie tumorali, disturbi respiratori, leucemie e linfomi. Siamo sull’orlo del disastro». La sola centrale di Torre Valdaliga nord ha una potenza installata di 1980 mw e produce oltre 40mila tonnellate di ceneri l’anno.

A rendere più fosco il quadro negli ultimi mesi ha concorso pure il sequestro di due aree della centrale di Torre Valdaliga nord. «Finalmente qualche lavoratore si è ribellato», dice soddisfatta la Ricotti. Prima della fine dell’anno il coordinamento No coke ha consegnato alla Procura della Repubblica di Civitavecchia 2 filmati, ricevuti in forma anonima, che mostrano irregolarità nella gestione dei rifiuti e delle ceneri del carbone nel cantiere della centrale. Nel primo video le immagini palesano una discarica a cielo aperto. All’interno dell’area alcune ruspe movimentano e seppelliscono rifiuti di ogni tipo: pneumatici, ferro, plastica, calcinacci, batterie, lana di vetro ma anche e, soprattutto, sacchi siglati come rifiuti speciali pericolosi. Il secondo filmato mostra invece un lavoratore che, senza alcuna precauzione, spala un mucchio di ceneri. «Ceneri che, a detta dell’Enel, non avrebbe mai dovuto vedere la luce» spiega Simona Ricotti. Nella brochure di presentazione dell’impianto, l’azienda garantisce infatti che la movimentazione del carbone «avviene in assoluta sicurezza», attraverso nastri «chiusi e in depressione che impediscono la fuoriuscita di polveri verso l’esterno». Secondo la responsabile del Forum Ambientalista però i video dimostrano che «così non è». L'Enel, a cui Left ha chiesto spiegazioni al riguardo, per il momento preferisce non rispondere.

Ma non è tutto. «La centrale opera oggi in assenza di autorizzazione e nessuno fa nulla» denuncia Ricotti. Il Forum Ambientalista, contrario al carbone, ha messo in luce alcune ambiguità legate all’iter di approvazione del progetto. «L’autorizzazione integrata ambientale (Aia) che consente il funzionamento dell’impianto è scaduta il 24 dicembre 2008 – spiega la Ricotti -. Il Ministero delle Attività Produttive l’aveva concessa all’Enel nel 2003 e la legge dice che deve essere rinnovata ogni 5 anni, a meno che l’impianto in questione non risulti, all’atto del rilascio dell’autorizzazione, registrato Emas (certificazione ambientale europea). Solo in questa eventualità il permesso vale 8 anni, ma non è il caso dell’Enel». L’azienda sostiene però di essere in regola e di possedere la certificazione necessaria per operare fino al 2011. «È vero che nel 2003 l’Enel possedeva una certificazione Emas - chiarisce la responsabile del Forum Ambientalista -, ma gli era stata rilasciata per un altro tipo di impianto, quello ad olio combustibile che adesso non esiste più». Poi aggiunge: «Oggi l’Enel ha presentato istanza per il rinnovo dell’Aia, ma la Conferenza dei servizi dev’essere ancora convocata. Se le norme e le leggi vigenti fossero rispettate, la centrale di Torre Valdaliga nord non potrebbe funzionare, basti pensare - continua la responsabile del Forum - che per le emissioni di monossido di carbonio l’Enel ha chiesto una deroga di oltre il triplo rispetto a quanto previsto dai limiti nazionali e europei. E transitoriamente gli è stata concessa. Ora vedremo con il nuovo rinnovo dell’Aia cosa succederà».

Il coordinamento no coke ha tentato in tutti i modi di bloccare la riconversione della centrale. Già nell’aprile del 2002 una commissione tecnico-scientifica, incaricata dal comune di Civitavecchia di studiare il caso, metteva in guardia sui rischi connessi «all’eventuale rilascio di arsenico, cromo e nichel», e al loro possibile «assorbimento da parte di piante e prodotti agricoli destinati all’alimentazione». L’anno successivo il Comune propose un referendum consultivo ma, con un ricorso al Tar prima e al Consiglio di Stato poi, l’Enel ne impedì lo svolgimento. A rivelare il parere della cittadinanza fu, però, una consultazione popolare autogestita dove il 90 per cento dei partecipanti (oltre 11mila) si espresse per il no. Così fecero anche tutte le amministrazioni limitrofe, la provincia di Roma, quella di Viterbo e la Regione Lazio guidata da Piero Marrazzo. Anche il comune di Roma scelse la stessa linea, per timore che le enormi quantità di inquinanti si riversassero sulla capitale, rendendo vani gli sforzi per ridurre il particolato già presente in città.

Nel 2004 fu, invece, la volta del comune di Ladispoli, che ricorse al tribunale di Civitavecchia chiedendo la sospensione dei lavori di riconversione a carbone della centrale termoelettrica. «Alla causa si associarono anche la provincia di Roma, i comuni di Allumiere, Tarquinia, Cerveteri, Legambiente e i Codacons - racconta Mauro Mocci -. La perizia, effettuata su richiesta del giudice, evidenziò che la valutazione di impatto ambientale con cui si volevano autorizzare i lavori era lacunosa e incompleta, e che c’erano seri rischi per la salute delle persone». I No Coke sentivano ormai la vittoria in pugno: la perizia parlava chiaro e il giudice avrebbe bloccato i lavori. Il 10 gennaio del 2005, però, all’udienza ci fu il colpo di scena: «gli avvocati dell’Enel - continua il medico, al tempo perito di parte - portarono in visione un documento che indusse il giudice a bloccare il processo». Si trattava del comma 552 dell’articolo 1, contenuto nella legge finanziaria 311 del 30 dicembre 2004, voluta dall’allora governo Berlusconi. «Legge approvata pochi giorni prima e non ancora pubblicata - sottolinea Mocci - ma di cui l’Enel, stranamente, era già a conoscenza». Il provvedimento assegnava tutte le cause e i ricorsi riguardanti l’energia al Tar, sottraendo di fatto la cosa alla competenza del giudice ordinario. A pochi metri dal traguardo, il fronte del No vide sospendere la gara.

A prendere in consegna le ragioni del No l’anno seguente fu Piero Marrazzo. «A pagina 72 del programma elettorale del neocandidato alla presidenza della Regione - spiega Simona Ricotti -, scritto di nostro pugno si leggeva: “Impedire la riconversione a carbone della centrale di Torre Valdaliga Nord”. Ma fu solo un impegno di facciata presto tradito. Marrazzo finì, infatti, per mettere a tacere le amministrazioni comunali, che ricevettero dall’Enel compensazioni in denaro>>. L'opposizione alla centrale a carbone dura ornmai da dieci anni e il coordinamento No Coke non si rassegna.A preoccupare gli abitanti del litoralelperò, non è solo il presente: «In cantiere c’è la duplice ipotesi di trasformare il quarto gruppo della centrale di Torre Valdaliga Sud in un inceneritore o di riconvertirlo a carbone - sostiene Ricotti -. Ed è diffuso il timore che presto l’impianto di Torre Valdaliga nord, già riconvertito a carbone, possa bruciare percentuali di cdr. Non sarebbe la prima volta. Dopo la sperimentazione sulla centrale di Fusina, all’Enel è stato infatti già concesso, con un decreto a livello nazionale, di bruciare una quota di combustibile da rifiuti nelle centrali a carbone». Il futuro di Civitavecchia dipende dalle scelte della politica ma, soprattutto, dalla mobilitazione della cittadinanza. «Il pericolo - avverte Mocci - è che la gente si abitui alle malattie connesse ai danni ambientali, che consideri i tumori una cosa normale, lo scotto che bisogna inevitabilmente pagare per compensazioni in denaro». L’opposizione alla centrale a carbone dura ormai da 10 anni e il coordinamento No Coke non si rassegna. A preoccupare gli abi, avere uno straccio di lavoro e mangiare».




Ecco il video, recapitato in forma anonima al Forum ambientalista di Civitavecchia, che testimonia la presenza nel territorio circostante la centrale di Torre Valdaliga nord, di una quantità enorme di ri rifiuti di vario genere, alcuni classificati come speciali.






In quest'altro video, realizzato e consegnato al comitato No coke sempre in forma anonima, si testimonia, invece, come un mucchio di polveri di carbone, che secondo l'Enel non avrebbero mai dovuto essere a contatto con l'aria e ben che meno alla portata dei lavoratori, viene spalato da un operaio, con notevoli rischi per la sua salute, data l'estrema tossicità di quelle polveri (Purtroppo, con la conversione nel formato Flv, adatto alla visualizzazione sul blog, si è persa molta qualità e le immagini appaiono piuttosto sfocate)


giovedì 4 febbraio 2010

Quando Piero Calamandrei rispose al nazista criminale di guerra: "lo avrai camerata Kesserling..." Ad ignominia di ogni fascismo

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Processato nel 1947 per crimini di Guerra
(Fosse Ardeatine, Marzabotto e altre orrende stragi di innocenti), Albert Kesselring (1885-1960), comandante in capo delle forze armate di occupazione tedesche in Italia, fu condannato a morte. La condanna fu commutata nel carcere a vita. Ma nel 1952, in considerazione delle sue "gravissime" condizioni di salute, egli fu messo in libertà. Tornato in patria fu accolto come un eroe e un trionfatore dai circoli neonazisti bavaresi, di cui per altri 8 anni fu attivo sostenitore. Pochi giorni dopo il suo rientro a casa Kesselring ebbe l’impudenza di dichiarare pubblicamente che non aveva nulla da rimproverarsi, ma che - anzi - gli italiani dovevano essergli grati per il suo comportamento durante i 18 mesi di occupazione, tanto che avrebbero fatto bene a erigergli. un monumento in suo onore. A tale impudente ed offensiva affermazione rispose Piero Calamandrei (1889-1956), giurista, docente universitario e Padre Costituzionalista, con una famosa epigrafe (recante la data del 4.12.1952, ottavo anniversario del sacrificio di Duccio Galimberti), dettata per una lapide "ad ignominia", collocata nell’atrio del Palazzo Comunale di Cuneo in segno di imperitura protesta per l’avvenuta scarcerazione del criminale nazista.

martedì 2 febbraio 2010

Lavoratori sempre, sudditi mai


Alcoa di Cagliari, Fiat di Pomigliano d'Arco, Fiat di Termini Imerese e tanti, tanti altri importanti stabilimenti industriali italiani rischiano di chiudere e di lasciare senza impiego e sostentamento migliaia di persone. E' un brutto periodo per quella che sulla carta è una Repubblica fondata sul lavoro. Probabilmente agli italiani che non vivono in prima persona questa drammatica situazione, dei lamenti dei lavoratori a rischio licenziamento arriva solo qualche flebile eco in tv e sui giornali, niente più. In pochi si preoccupano davvero del grido di dolore di una società, quella industriale italiana, agonizzante e che per adesso non vede all'orizzonte nessuna cura valida al suo male profondo.

In tutto ciò, però, oltre la paura di finire per strada c'è di più. C'è il terrore di perdere, insieme al lavoro, anche il diritto di abitare la propria terra, quella in cui si è nati e si è scelto di vivere e far progredire con la propria fatica, perchè non si ha di che sfamarsi. E questo in un paese civile è inaccetabile. In un sistema che funziona dovrebbe essere concesso a chiunque, se lo si è perso, di poter cercare e trovare un nuovo lavoro. La verità è che molti lavoratori dei grandi distretti industriali italiani vivono una condizione che non differisce di molto da quella dei contadini che, nel medioevo, erano tutt'uno con il proprio pezzo di terra. Quelle persone erano parte integrante del podere che lavoravano, di proprietà del grande feudatario o del vassallo di turno. Da quella terra i contadini medioevali ricavavano giusto il minimo per il prorpio sostentamento, e potevano essere venduti ed acquistati, insieme alla terra, come fossero macchine agricole, come farebbe un proprietario terriero contemporaneo che, venduto il proprio latifondo, non saprebbe più che farsene di trattori, trebbiatrici e quant'altro. Utilizzo questa similitudine, naturalmente, come provocazione ma anche perchè sono davvero convinto che sia calzante con la condizione odierna degli operai italiani. In Italia, dove sono presenti grandi stabilimenti industriali, intere città ne dipendono in tutto e per tutto. Questi impianti informano in profondità la cultura, la quotidianità, la vita presente e futura degli operai, e spesso vengono venduti, acquistati o dismessi senza badare minimamente a chi vi lavora. Allo stesso modo in cui le fabbriche danno la vita, la tolgono. E in vari modi. Nel nostro mondo la gente per sopravvivere ha bisogno di lavorare e, quando in un luogo la forza lavorativa è concentrata in poche grandi aziende, gli operai dipendono per la vita da esse. Diventano parte integrante dello stabilimento e possono essere dismessi come macchine. E' inutile parlare di capitale umano, di risorse intellettuali e di competenze e professionalità da difendere e far progredire se poi i lavoratori vengono trattati semplicemente come attrezzature di cui disfarsi. Nel nostro paese, purtoppo, un mercato del lavoro esiste solo per alcuni settori e per competenze di livello medio-alto. Per gli operai, invece, c'è solo la sudditanza dai capricci del capitale e dal buon vento che tira nell'economia. Tutto ciò è frutto di una politica del lavoro neglicente, poco attenta alla realtà sociale e succube degli interessi delle grandi aziende e famiglie di industriali. Se un lavoratore italiano cade, cade sempre con il culo per terra.


Il cappio al collo delle grandi città industriali, riferito al ricatto occupazionale, può svilupparsi in diversi modi ma, ad essere a rischio di strangolamento, s
ono sempre le persone che con il proprio lavoro, con la propria vita, hanno fatto grande quell'impianto. Il più visibile e diretto è quello che riguarda il calo della competitività degli impianti: un tempo arrivava lo Stato e con i soldi dei contribuenti salvava capre e cavoli, ma oggi questo, causa le leggi sulla concorrenza imposte dalla Comunità europea, non è più possibile. La Fiat, la più grande azienda italiana, è un esempio di come si possa basare il proprio progetto industriale sul ricatto occupazionale e sugli aiuti di Stato. Per anni, infatti, l'azienda torinese ha usufruito di soldi pubblici che si concretizzavano sotto varie forme: cassa integrazione, incentivi alla rottamazione dei veicoli e agevolazioni fiscali. Ma oggi, visto che il mercato delle auto è fermo, perchè saturo, chiude gli impianti e getta sul lastrico persone che a quell'azienda hanno dato la propria vita.


Un altro tipo di ricatto, ancora più vile e criminale, è quello riferito all'inquinamento prodotto da alcuni siti industriali e all'impossibilità di potersene liberare, dato che quegli impianti danno lavoro a intere città. In pratica ad alcune aziende viene concesso di avvelenare indiscriminatamente aree enormi di territorio, di risparmiare sui filtri, sulle riambientalizzazioni e sulla sicurezza a patto che mantengano costanti i livelli occupazionali. Una logica perversa, questa, di cui tantissime città grandi e piccole sone vittime e da cui è davvero difficile liberarsi
. Purtroppo, lavoratori e cittadini che vivono in città sommerse dai veleni emessi nell'aria, nell'acqua e sul cibo da queste industrie criminali sono costretti, loro malgrado, a barattare la propria salute con uno straccio di lavoro e, cosa ancora più assurda, a ringraziare i propri carnefici. Casi emblematici sono quelli dell'Ilva di Taranto, la più grande acciaieria d'Italia, e la centrale a carbone Enel di Torre Valdaliga nord e sud a Civitavecchia. Questi due poli industriali da cinquant'anni avvelenano le persone che vivono nel circondario e i lavoratori che mandano avanti gli impianti. Finora la cittadinanza non si è ribellata con forza perchè la prospettiva, senza la fabbrica, era quella della disoccupazione, ma ora qualcosa sembra muoversi e le persone hanno capito che la sudditanza verso queste aziende può essere spezzata. L'importante è che non siano lasciate sole a combattere contro giganti del calibro di Enel o dell'Ilva. Tutelare i lori diritti sarebbe compito dello Stato, se il nostro fosse un vero Paese democratico. La nostra costituzione dice che la Repubblica deve garantire eguali opportunità a tutti i cittadini, e che tutti hanno diritto alla salute e a vivere in un ambiente sano per poter concorrere allo sviluppo della nazione. Evidentemente questa, più che una carta costituzionale, in mano ai nostri amministratori diventa solo carta straccia, visto che sempre più persone si ammalano e muoiono per mantenere alti i dividenti di pochi azionisti delle grandi società industriali a cui hanno avuto la sfortuna di dover affidare la propria esistenza.

In conclusione il lavoro oggi in Italia è mero strumento di arricchimento di chi può disporne in grandi quantità, e non di chi lo produce. I lavoratori, in questo nostro fantastico mondo che si sostiene con il capitalismo globalizzato, sono coloro si accollano tutti gli oneri di mandare avanti la lussuosa baracca di pochi infidi maiali, e in cambio ricevono solo veleni, malattie, fame e morte. E' tempo che le cose cambino. E' tempo che qualcuno paghi, e che altri abbiano il giusto compenso, perchè stiamo diventando una Repubblica fondata sulle ingiustizie.

lunedì 1 febbraio 2010

Il giorno del maiale: tra rito, festa e morte




Questo post racconta di una giornata un po' particolare, passata nella mia terra, il Molise, tra il vento freddo dei primi giorni di gennaio e una tradizione che, tra divieti e supermercati forniti fino all'eccesso, continua a sopravvivere e stimolare emozioni contrastanti. Sto parlando del giorno del maiale, o " lu jurn ca' s' accid lu porcj", detto in dialetto. Il giorno che famiglie e amici dedicano all'uccisione di questo grande animale, così caro alla mia terra. In passato avere la possibilità di allevare un maiale, una stalla per farlo e dei soldi per comperarlo, era indice di ricchezza tra la gente del piccolo paese da cui provengo. Di questo animale, si sa, non si butta via niente, e la possibilità di conservare sotto forma di insaccati la carne dava modo a molti contadini di variare la propria dieta. Non solo fagioli o verdure varie dunque, ma anche proteine: succulente salsicce, ventricine, capocolli, salami e prosciutti imbandivano le tavole dei contadini nei momenti più belli, quelli in cui ci si ritrovava in festa con amici e parenti. E quelle si che erano feste, perchè erano rare!!


Per ammazzare un maiale con il metodo contadino, senza una cella frigorifera e dando da mangiare alla bestia solo roba sana e naturale, ci sono due condizioni da cui non si può prescindere: la prima, banale, è che il maiale sia bello grasso; la seconda, importantissima, è che il giorno prescelto faccia molto freddo, in modo che la carne non si secchi troppo e non si guasti.

Arriviamo alla masseria di Nicola per le nove, non proprio prestissimo, ma in tempo per assistere all'uccisione del secondo maiale di giornata -quel giorno ne sarebbero stati uccisi tre-. La mattinata è ventosa e molto fredda, ed io non ho a disposizione l'abbigliamento necessario a sopportare la temperatura, nè per stare in un luogo dove non ci si cura più di tanto dell'etichetta e della pulizia dei propri vestiti. Mi vengono allora dati degli indumenti più appropriati alla campagna: una tuta da meccanico, delle scarpe anti-infortunistiche, un gilet e una fascia per le orecchie per proteggermi dal freddo. Pronto e finalmente al caldo mi preparo ad assistere al rito. Quando si ammazza un maiale tra la gente che vi partecipa c'è sempre una particolare eccitazione e l'atmosfera è carica di attesa. Le persone presenti sono molte e con ruoli diversi. Il protagonista, il principale artefice della dipartita della bestia e colui che, con la propria bravura, da' la possibilità al porco di soffrire poco, è l'uomo che si occupa di sgozzarlo. Ha in mano un lungo coltello affilato come una spada, che brandisce con estrema sapienza e disinvoltura. Il suo mestiere consiste nel trovare il punto migliore dove infilare la lama, sotto la gola del maiale, per fare in modo che si dissangui in poco tempo, non soffra molto e la carne si liberi completamente del fluido vitale. Sembra una cosa facile ma, vi assicuro, non lo è per niente. Gli altri astanti hanno mansioni diverse: c'è quello che blocca il maiale nella stalla e lo trascina fuori, quelli che fermano le zampe al momento dello sgozzamento, altri che si occupano di pelarlo e lavorarne le interiora e poi ci sono quelli come me che, curiosi e impazienti, assistono in silenzio e a una distanza dall'animale che si fà via via sempre minore.


La masseria in cui mi trovo ha un caseggiato principale che funge anche da abitazione, accanto al quale, sulla sinistra, sorge una costruzione non rifinita fatta di mattoni e cemento adibita a stalla per gli animali e rimessa per i mezzi agricoli. E' qui che si trova il maiale, ed è proprio davanti alla sua stalla che verrà ammazzato. Innanzitutto due coraggiosi si occupano di tirarlo fuori dalla stalla. Dico coraggiosi perchè il maiale è un animale piuttosto forte che, se in pericolo, non lesina morsi e testate. Per bloccarlo e agevolare il dopo gli viene legata una corda attorno ad una delle zampe posteriori. Questa si stringerà all'arto e, se ben collocata, andrà a bloccarsi all'altezza del tallone, che nel maiale si trova ben più sopra delle dita dei piedi. Come tutti gli animali anche il suino sente l'avvicinarsi della propria ora, ancor di più se davanti alla stalla è stato da poco ammazzato un suo simile: sente l'odore del sangue nell'aria, ha udito le urla, gli strepiti e le imprecazioni dei contadini. Il secondo animale a morire è sempre più nervoso e meno mansueto del primo, e occorre tutta la sapienza necessaria per far si che le cose filino via lisce e senza intoppi. Una volta bloccato, la bestia viene tirata via con forza dalla propria stalla e qui inizia la parte truculenta. E' davvero difficile descrivere le urla e il dimenarsi di un porco impaurito. Sono fortissime, e gli scatti del corpo, tesi a liberarsi dalla morsa, sono gli ultimi, estremi tentativi di sventare un destino ineluttabile. Il maiale in questione, poi, non ha nessuna intenzione di morire e strilla e si dimena, vende cara la pelle e fà sudare sette camicie agli uomini che cercano di tenerlo fermo. Si mette sulle ginocchia e sbuffa così tanto che io, a qualche metro di distanza, sento quasi il suo fiato sul viso. Poggia il muso per terra, che gli diventa rosso per il sangue e alcune viscere del maiale ammazzato poco prima, e inizia a tirare fuori la lingua per lo sforzo. Tira fortissimo e cerca di divincolarsi, ma non può andare da nessuna parte, la sua fine è vicina. Il tallone non è troppo sporgente e la corda non riesce a bloccarsi e a immobilizzare l'arto. C'è bisogno di tutta la forza e la pazienza dei contadini presenti per portare a termine l'operazione e appendere il maiale per la zampa posteriore, a testa all'ingiù. Finalmente la corda si blocca e in due riescono a fissarla, con un gancio, alla forca di un muletto. A questo punto la parte difficile è conclusa, l'animale è stato immobilizzato o, per lo meno, non può più scappare. Ma ha ancora tre zampe libere, e mentre e appeso, capovolto, scalpita come un dannato. Ora, per facilitare il compito di colui che lo dovrà sgozzare
, c'è bisogno di immobilizzare almeno altre due zampe: l'altra posteriore e una delle due anteriori, possibilmente quella opposta all'arto inferiore immobilizzato. Questo viene fatto con estrema cautela, perchè una zampata o una testata sono dietro l'angolo e le forze del maiale, nella situazione di estremo pericolo, si sono moltiplicate a dismisura. Una botta ricevuta in questo momento potrebbe essere per chiunque estremamente dolorosa. Ma ci si riesce, ora tutto è pronto per il momento culminante.


Centinaia e centinaia di anni sono racchiusi in questo gesto, che a molti potrebbe sembrare crudele, squallido e privo di sensibilità, ma che per la mia gente che ancora porta avanti questa tradizione è soltanto ciò che si deve fare. Senza sentimentalismi, senza pensare troppo. La vita di un animale per la sopravvivenza alimentare dell'uomo. Oggi è più comodo, ed ipocrita, andare in un supermercato, acquistare in vaschette di polistirolo la carne già macellata e cofezionata e bollare la pratica che vi sto descrivendo come incivile. La maggior parte delle persone che consuma carne non ha mai visto l'animale che sta mangiando vivo. Gli farebbe schifo. Non riuscirebbe più a mandarla giù. Si rattristerebbe, proverebbe compassione e disgusto ma alla prima occasione, lontani dallo sguardo impaurito della bestia e davanti a una succulenta braciola, senza remore, inizierebbe a tagliare e a ingurgitare quella carne. Fregandosene dell'animale che l'ha donata. Le persone che ammazzano gli animali non in serie, per consumo proprio e per avere dei prodotti affidabili sono da ammirare. Questa gente rispetta le bestie, le accudisce, si occupa di farle stare bene e non le maltratta. Gli animali in questione non vivono in batterie, uno accanto all'altro in spazi dove non è possibile nemmeno che si accuccino. Sono destinati alla morte, è vero, ma in un mondo che ha perso il contatto con il cibo, con la sacralità degli alimenti e con la pratica di procacciarsi il pasto, o quantomeno con il lavorare le materie per renderle commestibili, quella che vi sto descrivendo è una storia che ci riconcilia con il nostro bisogno di alimentarci. Senza sentimentalismi, senza pensare troppo e senza ipocrisie.


Tornando a dove eravamo rimasti, al momento topico, il porco ora è ben fermo, bloccato in tre punti. Il suo collo è liscio e di un colore rosa pastello. Qui, devo dire la verità, dentro di me ho un sussulto. Il vento ha perso di intensità e un flebile sole, sbucato tra i nuvoloni invernali, rivolge i propri raggi verso di noi, quasi ad illuminare meglio il punto del maiale in cui il coltello dovrà entrare. La sua gola è ora ben visibile. Dopo una breve fase di studio, in cui l'animale continua a fare su e giù con il capo, l'uomo con il coltellaccio lo afferra per un orecchio per tenerlo ancora di più ben fermo. Dopo di che, zac, un colpo secco, dentro e fuori in meno di un secondo e dallo squarcio apertosi nella sua gola inizia ad uscire il sangue. Lo spruzzo all'inizio
ha poca forza, ma poi, spinto dal cuore che per la paura pompa con più solerzia, acquista potenza, fino a diventare un intenso gettito. Il sangue crea per terra un rigagnolo ben compatto, sempre più grande. Senza neanche accorgermene i miei piedi sono ora lambiti dal fluido rosso, che per il calore e la bassa temperatura dell'aria sprigiona un denso vapore che arriva fino alle mie narici. Man mano che passano i secondi il sangue che sgorga dalla ferita sulla gola del maiale perde d'intensità, e diventa un filo intermittente. E' ancora vivo, ma nel giro di poco emette l'ultimo respiro, l'ultimo strepito, l'ultimo grugnito e spira. La testa ora è appesa, senza vita, e si muove slegata dai muscoli e dai tendini che l'hanno governata fino a poco prima. Tra di noi, allora, la tensione si placa e la tranquillità prende il posto dell'agitazione. E' davvero la fine.


Il corpo del maiale, pronto per essere lavorato, è poi posto su di un particolare tavolo con le ruote, fatto a forma di conca e con delle sbarre sulle quali viene appoggiato l'animale. Si utilizza questo particolare appoggio per far scolare via l'acqua bollente utilizzata per staccare i peli che ricoprono il corpo. Una volta irrogato il corpo con il liquido bollente, con una particolare spatola non affilata si gratta la cotenna e la peluria viene via con facilità. La pelle del suino è molto dura e, se non fosse per questo, senza peli, al tatto sarebbe molto simile a quella umana. Concluso questo passaggio e tirate via le unghia, con un incisione nella parte finale delle zampe vengono tirati fuori i due tendini posteriori, che nell'uomo dovrebbero essere i tendini d'achille. Questi sono molto resistenti e vengono utilizzati per incastrare il gambiere, un aggeggio di ferro fatto a triangolo e posto, appunto, tra i tendini e l'osso, con i primi a fare da corda. Serve per tenere divaricate le gambe dell'animale e, all'estremità superiore, ha un gancio a cui viene legata una corda per appenderlo e iniziare a togliere le viscere.

Diciamo che la parte interessante è finita, anche perchè la macellazione di un animale è più o meno uguale per qualunque bestia. La peculiarità fondamentale del suino, che ne caratterizza anche la fase della spartizione, è proprio quella che riguarda l'utilità di ogni singola parte del suo corpo. Al giorno d'oggi qualcosa viene buttato via, ma fino a qualche anno fà tutto era importante. Si ha particolare cura soprattutto nell'estrazione e nella pulitura delle budella, che poi serviranno come contenitrici della carne tritata. Per capirci, la pelle che vedete intorno alle salsicce non sono altro che budella seccate insieme alla carne.

Penso di avere detto proprio tutto, o quantomeno di aver detto ciò che mi interessava dire. L'ultima cosa importante della giornata è stato il pranzo, in cui viene consumata la prima carne macellata. Di solito è fritta con l'aglio, ma ci si può fare anche un saporito sugo per condire la pasta. E poi vino, vino e nacora vino, per cocludere con leggerezza una giornata carica di tensioni ma, allo stesso tempo, di festa.
Spero che questo racconto, o meglio, reportage, non scandalizzi più di tanto coloro amano gli animali, perchè non v'è insensibilità alcuna, nè nella pratica descritta, nè tantomeno nel cuore delle persone, e del sottoscritto, che vi hanno partecipato. E' l'atavico gioco delle parti che da sempre informa il mondo. Non si può cambiare la nostra natura onnivora di cacciatori, prima, e allevatori poi.
La mia ultima riflessione la vorrei dedicare a tutti coloro consumano solo alimenti confezionati, perchè non hanno la possibilità di fare altrimenti. Cercate, il più possibile, di riacquistare una sintonia con il vostro cibo. Dovete farlo. Il cibo è ciò che siamo, ciò che saremo, e in esso, nella sua lavorazione, sono racchiusi millenni di cultura e pratiche alimentari. Cerchiamo tutti insieme di non sprecarlo, e di non esagerare con il consumo. Con le nostre scelte alimentari possiamo mantenere in vita tradizioni e piccoli produttori che altrimenti scomparirebbero, e dare vita a una vera e propria rivoluzione dal basso, che più che mai aderisce alla nostra epoca di consumo sfrenato. Utilizziamo le nostre scelte alimentari quotidiane per fare delle scelte politiche, per migliorare il mondo e, soprattutto, per rendere più degna la vita degli animali che ci permettono di sopravvivere.

Un grazie e un abbraccio sentito al mio amico Nicola e alla sua famiglia per avermi dato la possibilità di prendere parte a una tradizione che, giorno dopo giorno, sta scomparendo sotto il peso degli ipocriti burocrati e di coloro non hanno mai visto una bestia da vicino