venerdì 29 marzo 2013

Somari d'Italia unitevi. Nel nostro paese l'80 per cento della popolazione è analfabeta o semi-analfabeta

Sulla prima pagina del quotidiano La Repubblica oggi c'era un articolo sull'analfabetismo, diffuso, nel nostro paese. Incuriosito dalla notizia ho fatto qualche ricerca su internet e sono rimasto allibito da quello che ho trovato.
Una premessa: come molti di voi, penso, anche io ero convinto che ormai in Italia l'analfabetismo fosse un problema appartenente al passato,ormai debellato e alieno alla nostra contemporaneità. In effetti la questione oggi è differente rispetto all'inizio del secolo scorso, quando lo stato ha iniziato seriamente l'opera di alfabetizzazione della società italiana. Il problema odierno è rappresentato dall'analfabetismo di ritorno. Dalla perdita di capacità di comprensione di un testo, nonostante la scolarizzazione, dovuta al fatto che dopo aver concluso il proprio percorso scolastico in molti nel nostro paese hanno totalmente, o quasi, abbandonato la pratica della lettura, anche nelle sue forme più semplici.

I dati riportati da La Repubblica sono frutto di uno studio condotto dalla ALL (Adult Literacy and Life skills), un progetto internazionale di ricerca sui nuovi analfabetismi, che ha analizzato un campione di persone compreso tra i 16 e i 65 anni in sette paesi: Bermuda, Italia, Norvegia, Stati Uniti, Messico, Svizzera e Canada. I dati venuti fuori dallo studio sono sconcertanti, a dir poco. 
In pratica solo il 20 per cento di italiani è in grado di leggere e capire un testo di media lunghezza. Il 5 per cento è completamente analfabeta (non è in grado di comprendere l'etichetta di un medicinale) e circa la metà della popolazione possiede solo le capacità minime di lettura e comprensione (durante lo studio a queste persone è stato dato da leggere un breve testo su di una pianta ornamentale, con due informazioni differenti. Questi soggetti non sono riusciti a distinguere le due parti). Il restante 33 per cento di nostri concittadini ha "un possesso della lingua molto limitato" (non hanno compreso un testo che spiegava come montare il sellino di una bicicletta). Siamo, in sostanza, un popolo di semi-analfabeti. E la cosa più difficile da accettare è che, secondo queste ricerche, per la maggior parte delle persone che si trovano in queste condizioni, il non comprendere ciò che si legge non è un problema. Questa incoscienza, rispetto al passato, quando l'essere illetterati comportava vergogna, è dovuta anche ai nuovi mezzi tecnologici che utilizziamo quotidianamente. Naturalmente smartphone, tablet, pc etc non sono direttamente responsabili di questa ecatombe culturale. La tecnologia ha l'unica "colpa" di agevolare la vita di coloro non sono capaci di leggere e capire. Sopperisce, dunque, a mancanze che in passato relegavano le persone a ghetti culturali ed economici, mentre oggi i confini sono molto più sfumati, quasi nulli E mentre in passato l'analfabetismo era diffuso specialmente tra le fasce più povere del mezzogiorno, oggi questa condizione interessa in maniera uniforme tutta la società italiana, da nord a sud, ricchi, meno ricchi e poveri. Nessuno escluso, è un problema generalizzato che non afferisce alla condizione economica di chi ne è vittima. D'altronde basta dare un'occhiata ai dati sui consumi culturali del nostro paese, che in quanto ad acquisto di libri e quotidiani pro-capite in Europa è da anni tra i fanalini di coda.

La realtà presentata da questo studio, per quanto catastrofica, è anche ottimista rispetto ai dati forniti dall'Unla (Unione Nazionale per la Lotta contro l'Analfabetismo) in un suo rapporto del 2005. Secondo l'associazione italiana tra il 20 e il 25 per cento degli studenti che escono dalla scuola media inferiore non sa leggere e scrivere. Il 12 per cento di italiani - circa 6 milioni - è completamente analfabeta e non è in possesso di nessun titolo di studio. Più in generale, sempre secondo il rapporto Unla, circa 36 milioni di nostri concittadini sono analfabeti, semi-analfabeti o analfabeti di ritorno non in grado di affrontare, adeguatamente preparati, le sfide che il mondo contemporaneo pone alle varie società nazionali. Una vera e propria palla al piede culturale per il nostro paese, che fa sentire tutto il suo peso anche e soprattutto nelle cose che riguardano la vita pubblica. L'ultimo sentomo rilevabile è la situazione politica che stiamo vivendo in questi giorni, ma che affonda le proprie radici nel ventennio berlusconiano. Un periodo in cui, diciamoci la verità, il nostro paese non ha brillato su molti fronti. Quest'emergenza sociale è più grave dal centro-Italia fino al sud e alle isole. Basilicata, Calabria, Molise, Sicilia, Puglia, Abruzzo, Campania, Sardegna, Umbria sono regioni con una popolazione analfabeta, senza alcun titolo di studio, che supera l’8%.

Tullio De Mauro, docente all'università La Sapienza di Roma, già ministro dell'istruzione dal 2000 al 2001 e da anni impegnato sul fronte della ri-alfabetizzazione, in un'intervista rilasciata il dicembre scorso al quotidiano Il Messaggero sostiene che «sulla nostra vita associata il livello di incultura della popolazione adulta pesa enormemente». Tradotto vuol dire che l'Italia è ostaggio della maggioranza di persone che non hanno i mezzi culturali minimi per discernere scientemente su cosa è meglio per il paese (in poche parole votano senza conoscere). E naturalmente sono una zavorra per lo sviluppo, non solo umano, ma anche economico dell'intera società italiana. Per Tullio De Mauro «il quadro è drammatico. Effettivamente -continua il docente- i dati che vengono fuori per il nostro Paese possono essere definiti catastrofici. Queste indagini vengono condotte osservando il comportamento dinanzi a sei questionari graduati e vedendo come gli interpellati rispondono, se rispondono, a richieste di esibire capacità di lettura e comprensione, scrittura e calcolo. È interessante notare che in tutti i Paesi ci sono fenomeni di regressione in età adulta rispetto ai livelli formali». Oltre alle ovvie conseguenze, tutto ciò preclude ad un'ampia fetta di popolazione anche l'accesso al lavoro qualificato, di cui un'economia avanzata come la nostra avrebbe enorme bisogno. De Mauro sostiene che la regressione alfanumerica, se dopo gli studi non si leggono libri o giornali, è un fattore «fisiologico che interessa ogni paese. Ma l'Italia è alla patologia - continua l'ex ministro dell'istruzione-. I nostri dati sono impressionanti. Un 5% della popolazione adulta in età di lavoro – quindi non vecchietti e vecchiette, ma persone tra i 14 e i 65 anni – non è in grado di accedere neppure alla lettura dei questionari perché gli manca la capacità di verificare il valore delle lettere che ha sotto il naso. Poi c’è un altro 38% che identifica il valore delle lettere ma non legge. E già siamo oltre il 40%. Si aggiunge ancora un altro 33% che invece legge il questionario al primo livello; e al secondo livello, dove le frasi si complicano un pò, si perde e si smarrisce: è la fascia definita pudicamente ”a rischio di analfabetismo”. Si tratta di persone che non riescono a prendere un giornale o a leggere un avviso al pubblico – anche se è scritto bene, cosa tutta da vedere e verificare. E così siamo ai tre quarti della popolazione».In conclusione per De Mauro tutto ciò avviene perchè «per quanto le scuole possano lavorare, i livelli di competenze delle famiglie e più in generale della società adulta si riflettono massicciamente sull’andamento scolastico dei figli. Quindi riuscire a comprendere quanto sia rilevante il problema della scarsa competenza alfanumerica degli adulti significa anche capire quanto la nostra scuola lavora, per così dire, in salita. L’insegnante che cerca di occuparsi del ragazzino o della ragazzina che viene da una famiglia in cui mai sono entrati un libro o un giornale fa una fatica spaventosa; così la scuola deve svolgere un compito immane. Negli altri Paesi esistono degli eccellenti sistemi di educazione permanente. Da noi siamo a zero».

Questa realtà sconvolgente ci fornisce anche una spiegazione del perchè, come sistema paese, siamo così in crisi. E' inutile nascondercelo, l'Italia è un paese in regressione culturale, più che in recessione economica. Siamo stati per secoli il faro morale e culturale del mondo occidentale, ma oggi il nostro peso su ciò che avverà in futuro, sia in termini economici che politici che di influenza sugli stili di vita, è praticamente inesistente. E questa realtà è frutto dell'inadeguatezza con cui è stata amministrata la cultura e l'istruzione nel nostro paese negli ultimi decenni. Non abbiamo un sistema scolastico efficiente. Le persone terminano gli studi e non si interessano più alla comprensione profonda dell'esistente. La maggior parte degli individui si limita alla superficie che gli viene proposta per lo più dalla Tv. Non abbiamo intellettuali di spicco, anche perchè proprio la figura del pensatore è spesso dileggiata e snobbata dall'informazione mainstream. Nel corso della seconda metà del '900 abbiamo avuto personalità del calibro di Pasolini, Calvino, Montale, De Andrè, Sciascia, solo per citare alcuni letterati. Oggi la destra rifugge dalla figura dell'intellettuale, quasi fosse un'offesa indicare qualcuno come pensatore, e a sinistra la personalità di riferimento è Roberto Saviano. Senza nulla togliere a Saviano, ma è possibile che uno che ha scritto un solo libro, per di più di inchiesta giornalistica, debba assurgere al rango di intellettuale di riferimento per un'intera area politico-culturale? Purtroppo siamo messi così e, pare, ci piace tanto sguazzare in questa palude di ignoranza dominante. Avremmo bisogno, come a inizio secolo scorso, di un nuovo programma di ri-alfabetizzazione della popolazione. O semplicemente una riforma reale e  ben fatta del nostro sistema scolastico.


Omicidio Aldrovandi: il vergognoso sit-in dei poliziotti del Coisp sotto l'ufficio della mamma del ragazzo ucciso; un altro chiodo sulla bara dell'Italia


Le immagini dei poliziotti del Coisp (sindacato di polizia di area cento-destra) che manifestano a Ferrara per i loro "complici" in galera è un qualcosa di nauseabondo. Ancora di più se si pensa al luogo scelto per il sit-in, la piazza antistante l'ufficio dove lavora la mamma di Federico Aldrovandi, Patrizia Moretti. Una madre che ha lottato fino allo stremo per avere giustizia da uno stato che in più di un'occasione, quando si è trattato di dover punire i propri "servi" macchiatisi di azioni infami, si è tirato indietro e ha coperto le loro (e sue) vergogne. Vedere una madre costretta, dopo aver perso il proprio figlio massacrato da coloro avrebbero dovuto proteggerlo, a scendere in strada con in mano una gigantografia del caro con il cranio spaccato, in una pozza di sangue lascia senza parole. Siamo un popolo in affanno, senza più forze, e questi fatti lo dimostrano, perchè fanno capire al mondo intero a che grado di bassezza è arrivata la nostra cultura e il nostro senso di solidarietà civile. Si può anche essere discordanti nei confronti della sentenza dei giudici, che hanno condannato gli agenti di polizia responsabili dell'omicidio Aldrovandi a tre anni e sei mesi di reclusione (in realtà è tanto se ne faranno 6 mesi), ma era necessario (e possibile) andare a protestare dalla madre del ragazzo ucciso? Oltretutto, da quello che si è capito dalle dichiarazioni di Patrizia Moretti, questo non è il primo caso di intimidazioni  (vero è proprio stalking) ricevute nel corso di questi anni di processo. Anche se tra le fila delle forze dell'ordine vige lo "spirito di corpo", che porta gli agenti a proteggersi l'uno con l'altro, fino a dove si può arrivare per autoconservarsi ed evitare di rispondere dei propri crimini? Sono sicuri, i signori poliziotti che ieri con i cartelli in mano si sono prestati a quella volgare pantomima, che sia questa la strada giusta, anche per il loro interesse? A me pare che oltre la corruzione, la malapolitica e tutto il resto, sia proprio questa regressione culturale, che mette al primo posto il più becero corporativismo rispetto all'interesse comune, a distruggere giorno dopo giorno la coesione, di cui oggi tanto avremmo bisogno, del (fu) popolo italiano.

mercoledì 27 marzo 2013

Todo Modo (1976). Regia di Elio Petri con Gian Maria Volontè

Todo Modo è l'ultimo film del binomio Petri Volontè. Un sodalizio che negli anni '70 fece conoscere a tutto il mondo il cinema politico italiano, che nelle vicende, oscure e non, del nostro paese trovava una inesauribile fonte d'ispirazione. Una prolifica relazione, quella tra il regista e l'attore, non solo professionale, ma anche e soprattutto politica e ideologica, da cui sono nati film come A ciascuno il suo (1967), Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), La classe operaia va in paradiso (1972) e, appunto, Todo Modo (1976). Il protagonista della vicenda, Il Presidente interpretato da Volontè, è liberamente ispirato alla figura di Aldo Moro. Il film uscì nelle sale due anni prima del sequestro del presidente della Democrazia Cristiana da parte delle Brigate Rosse. E questo ne determinò la scarsa diffusione, dato il clima politico e sociale che imperversava nel paese. In pratica si preferì relegarlo nel dimenticatoio, per non turbare la sensibilità del pubblico (votante). Buona visione.


Israele, il nuovo governo e la questione del fondamentalismo ebraico

Delle vicende che riguardano il medioriente sappiamo molto. Siamo a conoscenza dei vari aspetti che nel corso degli ultimi 60-70 anni hanno funestato quella parte di mondo così cara a tante culture e religioni. Nel corso del '900 il motivo di maggior preoccupazione e polarizzazione delle posizioni è stato il conflitto arabo-israeliano, nella sua declinazione israelo-palestinese, con tutte le sue sfaccettature, massacri, mobilitazioni internazionali e impegno delle varie diplomazie affinchè si arrivasse ad una sintesi e una pace duratura.
Questo post non è dedicato direttamente alla questione mediorentale in quanto scontro tra due popoli, interessi e religioni, ma vuole analizzare più da vicino un problema per lo più taciuto dalla maggior parte della stampa mainstream, che nei prossimi anni potrebbe diventare un ennesimo motivo di tensione regionale e mondiale: la questione è tutta interna alla composizione demografica della società ebraica, con il crescente attrito tra israeliani laici di sinistra e tradizionalisti religiosi ultraortodossi. 

Dopo settimane di stallo e negoziazioni lunedì scorso si è arrivati al giuramento del 33° governo israeliano, il terzo di cui Benjamin Netanyahu sarà premier. Un esecutivo di cento-destra da cui, però, a sorpresa per la prima volta da dieci anni a questa parte sono stati completamente esclusi gli ultraortodossi.
Dalle urne, lo scorso gennaio, era venuta fuori una Knesset (parlamento unicamerale israeliano, che conta 120 seggi) sostanzialmente spaccata e a rischio paralisi. Alla fine si è arrivati ad un compromesso tra il ticket Likud-Yisrael Beitenu (31 seggi), guidato dal neo-premier e Avigdor Lieberman, e la vera novità di questo parlamento, la formazione centrista Yesh Atid (19) capeggiata dall'ex commentatore televisivo Yair Lapid. Gli altri due partiti che hanno consentito a Netanyahu di raggiungere la risicata quota di maggioranza di 68 seggi sono il Focolare Ebraico (HaBayit HaYehudi) di Naftali Bennett e il Movimento (Hatnua) dell'ex ministro degli esteri Tzipi Livni, che possono contare rispettivamente su 12 e 6 deputati.

Per permettere all'esecutivo di nascere, Netanyahu ha dovuto rinunciare alla solida alleanza con i due partiti ultraortodossi più importanti, Shas e United Torah Judaism, avversati dai suoi neo-alleati di Focolare Ebraico e da Yesh Atid di Yair Lapid. Nel  loro programma queste due formazioni hanno presentato riforme che limitano significativamente i privilegi di cui la parte tradizionalista della popolazione ha goduto fino ad oggi. Uno fra tutti l'esenzione per i giovani haredim (studiosi della Torah) dal servizio di leva obbligatoria, che i due partiti vorrebbero invece eliminare. La situazione però è alquanto complicata, perchè nonostante l'assenza degli ultraortodossi le istanze dei coloni sono ben rappresentate da Focolare Ebraico, che si definisce "ortodosso moderato", e al cui leader, Naftail Bennet, è andato il dicastero dell'economia. Bennet in campagna elettorale in più di un'occasione ha palesato il suo interesse a che vengano permessi maggiori insediamenti ebraici nelle terre occupate dai palestinesi. Il nome stesso del suo partito, Focolare Ebraico, è fortemente esplicativo della posizione politica che occupa, in quanto si rifà alla famosa dichiarazione Balfour del 1917 che prefigurava la nascita, per gli ebrei, di un "focolare nazionale", ed è considerato il primo passo per la costituzione dello stato di Israele. Anche Bennet porta in politica il dettato biblico, riguardo alla questione territoriale, ma rispetto agli ultraortodossi è considerato un laico.


In realtà il problema della convivenza fra le due anime che compongono il popolo di dio, e che oggi sono divise da un abisso culturale a tal punto da rappresentare due popoli all'interno della stessa nazione, affonda le proprie radici fin dalla costituzione dello stato israeliano; allora però la componente ortodossa era largamente minoritaria e gli eredi dei kibbutz, laici socialisti fondatori politici dello stato, al potere ininterrottamente fino al 1977 , fecero di tutto per non indispettire e frustrare la parte più tradizionalista della società ma, al contempo, si prodigarono per separare nettamente la sfera pubblica da quella religiosa. Agli haredim venne lasciato ampio margine di scelta e organizzazione delle proprie comunità, a volte chiudendo un occhio e altre addirittura avallando delle richieste palesemente illiberali e inique rispetto al resto della società israeliana.
Questo labile equilibrio, minacciato costantemente dalle crescenti rivendicazioni e proteste degli iper-religiosi, ha tenuto fino all'assassinio del primo ministro socialista Ytzhak Rabin nel 1995, per mano di un colono ebreo estremista che, insieme ad una larga fetta di popolazione, non approvava e non approva le aperture verso gli arabi. Da allora molti sono stati i momenti di intolleranza reciproca tra laici e religiosi culminati nell'episodio dello scorso dicembre quando una bambina di 7 anni di Beit Shemesh è stata presa a sputi, pietre e insulti da alcuni ultraortodossi per non aver rispettato il marciapiede riservato alle donne (nella strada principale della cittadina un lato è riservato agli uomini e l'altro alle donne) e perchè abbigliata in modo "immodesto", con una maglietta a maniche corte ed una gonna colorata che non copriva completamente le ginocchia.
Di colpo la tanto decantata "unica democrazia" liberale del medioriente, con il mondo intero allibito per l'accaduto, si è ritrovata a fare i conti con quello che oggi è uno dei fronti più caldi del confronto-scontro tra le due tendenze che compongono Israele, il "posto" della donna. Secondo i religiosi sarebbe di gran lunga meglio tornare alla tradizione, quando l'uomo serviva la patria e la donna l'uomo.
Gran parte della società israeliana progressista e occidentale ha condannato fortemente l'accaduto e la stampa internazionale ha portato alla ribalta mondiale un fenomeno fino ad allora in larga misura sottaciuto. Tre settimane prima del fatto il segretario di stato USA Hillary Clinton, commentando le direttive sempre più misogene dei rabbini estremisti, aveva esclamato: "sembra di stare a Teheran". Gioco forza, però, non si era dato troppo risalto al commento, ma la brace aveva continuato ad ardere sotto la cenere e il fuoco è divampato prima della fine dell'anno.
Una presa di posizione decisa, anche solo formale, da parte degli Stati Uniti, il più grande alleato del paese sionista, sarebbe stata piuttosto controproducente a livello mediatico. Non bisogna dimenticare che uno dei tanti motivi addotti per scatenare la guerra in Afghanistan è stato proprio quello relativo alla condizione della donna nel paese del "grande gioco".

Lo stato ebraico sta diventando sempre più religioso. A dimostrarlo non è solo l'eplosione del numero di sinagoghe costruite negli ultimi anni, ma soprattutto i dati: nel suo ultimo rapporto l'Ufficio Centrale di Statistica ha palesato una situazione e prefigurato una tendenza che dovrebbe portare la componente tradizionalista della società, all'incirca entro il 2030, ad essere maggioritaria nel paese e, ovviamente, nella Knesset (il parlamento). A oggi secondo le stime, l'8 per cento della popolazione israeliana è ultraortodossa, il 15 ortodossa, il 13 ortodossa tradizionale, il 25 tradizionale e il 42 per cento laico. La parte di popolazione molto religiosa è salita al 23 per cento e secondo questo andamento fra trent'anni gli ultraortodossi saranno un
terzo della popolazione. A sfavorire particolarmente la parte più occidentalizzata è il numero delle nascite: come è avvenuto in ogni società moderna, la fetta più progredita della popolazione ha visto diminuire costantemente il numero dei propri figli e in Israele oggi la famiglia laica tipo è composta mediamente da due genitori e un solo figlio. I tradizionalisti, in particolare gli ultra-ortodossi, in media sfornano otto figli per nucleo famigliare.
Quella che si va delineando, in un futuro nemmeno troppo lontano, è la presa del potere da parte dei fondamentalisti religiosi, in un paese, non scordiamocelo, in possesso della bomba atomica.
Se gli iraniani hanno letto queste stime probabilmente non hanno tutti i torti a dotarsi anche loro di ordigni nucleari, più che altro per scongiurare un attacco atomico israeliano che non avrebbe adeguate contromisure.
Lo so, è una provocazione. Ma se ci ragioniamo bene, perchè dovremmo, a ragione, aver timore dei fondamentalisti islamici e non di quelli ebraici? La risposta è semplice: per il momento agli Stati Uniti e all'occidente fa comodo così. Come compresero sia i russi che gli americani, in piena guerra fredda e dopo i casi in cui più si andò vicini ad un conflitto atomico-apocalittico, la bomba atomica è un'arma totalmente irrazionale se in mano a entrambe le fazioni in guerra. L'escalation non vedrebbe primeggiare nessun vincitore e, parafrasando Tacito, creerebbe un deserto chiamato pace.

Tornando al nostro discorso, anche se fin dalla nascita di Israele i socialisti furono fermamente decisi ad integrare le donne nei gangli dello stato, addirittura a farle parte integrante di "Tsahal" (l'esercito), i timorati di dio sono riusciti ad imporre alcune regole da apartheid di genere: come la separazione tra donne e uomini nei trasporti pubblici e, in alcune medie città e quartieri di Gerusalemme ad alta concentrazione di ortodossi, una segnaletica stradale che indica il senso di marcia riservato al genere femminile. Tutto ciò è potuto accadere perchè Ben Gurion decise di non dotare il nascituro stato di una costituzione scritta, per non imporre delle leggi difficilmente mutabili e dunque salvaguardare l'armonia lasciando di volta in volta le decisioni in mano al fluttuare della contrapposizione politica. Oggi però pare che il banco sia saltato.

Anche se il 6 gennaio 2011 una sentenza dell'Alta Corte israeliana ha stabilito che la segregazione è illegale, e imposto alle società di gestione del trasporto pubblico di mischiare i passeggeri, gli haredim non ci stanno e ancora oggi nei fatti questa disposizione non è prassi. Un altro fronte caldo, già accennato, è quello che riguarda la coscrizione obbligatoria. Lo scorso febbraio l'Alta Corte di giustizia di Gerusalemme ha sentenziato che la "Tal Law", che permetteva ai giovani studiosi della Torah l'esenzione dalla leva obbligatoria, ad agosto, quando andrà a scadenza, non sarà rinnovata. Naturalmente questa decisione ha scatenato le ire degli haredim, con proteste di piazza a volte anche piuttosto violente. La legge fu ratificata nel 2002 dall'allora premier Ariel Sharon per offrire una via d'uscita agli ebrei ultraortodossi che non vogliono adempiere agli obblighi di leva, che in Israele dura due anni sia per le donne che per gli uomini. La norma stabilisce che chi frequenta una scuola rabbinica può rinviare fino a 22 anni l'ingresso obbligatorio nell'esercito. Il problema, però, è che a quell'età la maggior parte degli haredim ha già un numero di figli tale da permettergli di essere esentato per altri motivi. Questo privilegio, com'è facile capire, non è mai andato giù alla parte laica e moderata della popolazione, che negli anni ha presentato vari ricorsi fino a giungere alla sentenza sopra citata. La questione dei privilegi e delle agevolazioni di cui godono gli ultraortodossi, non ha solo risvolti di iniquità sociale, ma anche economici. Questo accade perchè lo stato sussidia tutti coloro spendono l'intera vita allo studio delle sacre scritture, inducendo la parte di popolazione tradizionalista, che in maggioranza si dedica a questa attività, a sviluppare un atteggiamento parassitario. Gli haredim sono la parte più povera della società israeliana: per lo più disoccupati che vivono di questi sussidi statali, il loro mancato apporto produttivo alla crescita economica del paese grava enormemente sui conti pubblici, e ancora di più mette in pericolo il patto sociale fra le diverse fasce che compongono la collettività israeliana.

In conclusione quello che più  mi preoccupa, naturalmente, non è tanto la stabilità interna di Israele, in quanto paese a se stante, ma in quanto attore fondamentale nel processo di stabilizzazione dell'intero teatro mediorientale. Il fatto che gli israeliani dispongano di armi nucleari, e che nel futuro del paese della stella di David possa concretamente affacciarsi il fondamentalismo religioso, in questo caso ebraico, non è per nulla rassicurante. Così come non c'è da stare tranquilli per il possibile disimpegno americano nella regione, ora che gli USA, grazie allo Shale Gas, potrebbero guadagnare l'autonomia energetica e dunque abbandonare al suo destino il medioriente. Sarebbe forse opportuna una politica di disarmo concertata fra i diversi attori, ma viste le posizioni, per lo più irriducibili, sembra difficile che questo possa avvenire in maniera pacifica. Come ultima analisi sarebbe ora di smetterla di considerare Israele il campione mediorientale della libertà, e i paesi arabi solo come regimi dittatoriali. Come si può vedere non tutto è come sembra e anche Israele ha le sue zone grigie, che con il passare degli anni potrebbero diventare completamente nere.

martedì 26 marzo 2013

La Taranta (1962). Documentario di Gianfranco Mingozzi, realizzato con la consulenza di Ernesto De Martino





Biografia e Filmografia di Gianfranco Mingozzi

L'inquietante erotismo passionale italiano rappresentato da quella ragazzaccia giunonica di Serena Grandi. Chissà perché, di Gianfranco Mingozzi, il pubblico ricorda solo quello. Mentre le maestranze, i distributori e gli storici del cinema preferiscono al ritratto di un regista di film erotici, quello di un grande maestro del documentario italiano che ha fatto scuola anche all'estero. Erano gli inizi degli Anni Sessanta e Mingozzi, dopo essere stato assistente regista di Federico Fellini, aveva voglia di dirigere anche lui qualcosa. Dopo alcuni anni di silenzio, ecco i suoi documentari etnografici. Opere che lo imposero, assieme a un altro regista (Luigi Di Gianni), come un esperto nella difficile arte visiva del documentarismo italiano. Alla base di tutto, la grande passione per la cultura del Mediterraneo come crocevia di culture e luogo di contaminazione, che poi lo portò a puntare le luci sulla settima arte, sui suoi protagonisti e sulle loro storie, aggiungendovi solo allora gli insoliti, lambiccati e pienamente riusciti film intriganti e sessuali. Ispirato da grandi penne come quelle di Tonino Guerra, Roberto Roversi e Apollinaire, diventa un alacre autore coraggioso e molto realistico, che predilige i racconti provinciali a quelli delle grandi città, racconti che vengono portati sul grande schermo con "modi finissimi di rappresentazione, tempi abilmente trattenuti, risvolti narrativi seguiti con garbo, caratteri disegnati con accenti sottili", un cinema di metafora e di poesia, ripieno di coerenza stilistica. Purtroppo fu questo suo perdere la testa per la straordinarietà della vita, questo suo abbandonare la rigidità cinematografica di allora nella rappresentazione di mondi lontani e unviersi personali - che in altre condizioni e in altre nazioni, avrebbero potuto farlo diventare un Maestro del cinema - a non farlo amare dalla critica e dal pubblico del nostro paese. Non andrebbe mai dimenticato Gianfranco Mingozzi che, è giusto che si scriva a chiare lettere, è l'occhio che ha diretto alcuni capolavori del genere documentaristico italiano e ha anticipato la tendenza minimalista già dagli Anni Settanta, lavorando con la drammaturgia del quotidiano e sulla sua immagine. Sulla sua filmografia, spiccano titoli e film che sembrano lontani dalle corde di Mingozzi, ma il risultato complesso, pieno di sfumature e anche commovente del suo lavoro, da vedere e rivedere, ha reso ricco il cinema italiano e lo ha reso esistente.



I Documentari

 Nel 1959 comincia a pensare di poter firmare anche qualcosa di suo. Ma invece di porre la sua attenzione per il lungometraggio e per i film a soggetto, sceglie il documentario. Arrivano così i suoi primi lavori Festa a Pamplona (1959) e Gli uomini e i tori (1959), seguiti da Le finestre (1962), Tarantula (1962), Via dei Piopponi (1962), Il putto (1963), I mali mestieri (1963) e altri documentari dai titoli poetici che lo imporranno come uno dei migliori documentaristi italiani: (1964); Il sole che muore; Notte su una minoranza (1964); Con il cuore fermo Sicilia (1965), realizzato con Cesare Zavattini; Michelangelo Antonioni - Storia di un autore (1966), realizzato sul grande maestro che ha lo ha largamente influenzato con la sua poetica; Corpi (1969) e Per un corpo assente (1968). Poi una pausa dal genere per dedicarsi alle pellicole e all'esplorazione dei film a soggetto. Ritornerà solo nel 1982, quando dedicherà alla grande diva del muto Francesca Bertini l'opera L'ultima diva - Francesca Bertini. Il suo percorso continuerà con: Sulla terra del rimorso (1982); Arriva Frank Capra (1986); Bellissimo - Immagini del cinema italiano (1985) composto da una serie di interviste fatte a registi, produttore, attori, costumisti e maestranze varie del cinema italiano; Noi che abbiamo fatto la dolce vita (2009) e Giorgio/Giorgia (Storia di una voce)


Filmografia

Noi che abbiamo fatto la dolce vita Documentario Italia, 2009
Ali Documentario Italia, 1994
Con il cuore fermo, Sicilia Documentario Italia, 1965
Il rigore più lungo del mondo Drammatico Italia, 2003
Al nostro sonno inquieto Drammatico Italia, 1964
Stabat Mater Drammatico Italia, 1996
Gli uomini e i tori Documentario Italia, 1959
Il putto Documentario Italia, 1963
Il sole che muore Documentario Italia, 1964
Li mali mestieri Documentario Italia, 1963
Sulla terra del rimorso Documentario Italia, 1982
Le finestre Documentario Italia, 1963
La vita che ti diedi Commedia Italia, 1991
Tobia al caffè Commedia Italia, 2000
Gli ultimi tre giorni Drammatico Italia, 1978
Trio Drammatico Italia, 1967
Sequestro di persona Drammatico Italia, 1967
Morire a Roma Drammatico Italia, 1972
Le italiane e l'amore Politico Italia, 1962
L'iniziazione Commedia Italia, 1986
Il frullo del passero Commedia Italia, 1988
Flavia, la monaca musulmana Drammatico Italia, 1974
L'appassionata Erotico Italia, 1989

 (fonte: Corriere della Sera)


Biografia di Ernesto De Martino proposta dall'Enciclopedia italiana Treccani