martedì 2 febbraio 2010

Lavoratori sempre, sudditi mai


Alcoa di Cagliari, Fiat di Pomigliano d'Arco, Fiat di Termini Imerese e tanti, tanti altri importanti stabilimenti industriali italiani rischiano di chiudere e di lasciare senza impiego e sostentamento migliaia di persone. E' un brutto periodo per quella che sulla carta è una Repubblica fondata sul lavoro. Probabilmente agli italiani che non vivono in prima persona questa drammatica situazione, dei lamenti dei lavoratori a rischio licenziamento arriva solo qualche flebile eco in tv e sui giornali, niente più. In pochi si preoccupano davvero del grido di dolore di una società, quella industriale italiana, agonizzante e che per adesso non vede all'orizzonte nessuna cura valida al suo male profondo.

In tutto ciò, però, oltre la paura di finire per strada c'è di più. C'è il terrore di perdere, insieme al lavoro, anche il diritto di abitare la propria terra, quella in cui si è nati e si è scelto di vivere e far progredire con la propria fatica, perchè non si ha di che sfamarsi. E questo in un paese civile è inaccetabile. In un sistema che funziona dovrebbe essere concesso a chiunque, se lo si è perso, di poter cercare e trovare un nuovo lavoro. La verità è che molti lavoratori dei grandi distretti industriali italiani vivono una condizione che non differisce di molto da quella dei contadini che, nel medioevo, erano tutt'uno con il proprio pezzo di terra. Quelle persone erano parte integrante del podere che lavoravano, di proprietà del grande feudatario o del vassallo di turno. Da quella terra i contadini medioevali ricavavano giusto il minimo per il prorpio sostentamento, e potevano essere venduti ed acquistati, insieme alla terra, come fossero macchine agricole, come farebbe un proprietario terriero contemporaneo che, venduto il proprio latifondo, non saprebbe più che farsene di trattori, trebbiatrici e quant'altro. Utilizzo questa similitudine, naturalmente, come provocazione ma anche perchè sono davvero convinto che sia calzante con la condizione odierna degli operai italiani. In Italia, dove sono presenti grandi stabilimenti industriali, intere città ne dipendono in tutto e per tutto. Questi impianti informano in profondità la cultura, la quotidianità, la vita presente e futura degli operai, e spesso vengono venduti, acquistati o dismessi senza badare minimamente a chi vi lavora. Allo stesso modo in cui le fabbriche danno la vita, la tolgono. E in vari modi. Nel nostro mondo la gente per sopravvivere ha bisogno di lavorare e, quando in un luogo la forza lavorativa è concentrata in poche grandi aziende, gli operai dipendono per la vita da esse. Diventano parte integrante dello stabilimento e possono essere dismessi come macchine. E' inutile parlare di capitale umano, di risorse intellettuali e di competenze e professionalità da difendere e far progredire se poi i lavoratori vengono trattati semplicemente come attrezzature di cui disfarsi. Nel nostro paese, purtoppo, un mercato del lavoro esiste solo per alcuni settori e per competenze di livello medio-alto. Per gli operai, invece, c'è solo la sudditanza dai capricci del capitale e dal buon vento che tira nell'economia. Tutto ciò è frutto di una politica del lavoro neglicente, poco attenta alla realtà sociale e succube degli interessi delle grandi aziende e famiglie di industriali. Se un lavoratore italiano cade, cade sempre con il culo per terra.


Il cappio al collo delle grandi città industriali, riferito al ricatto occupazionale, può svilupparsi in diversi modi ma, ad essere a rischio di strangolamento, s
ono sempre le persone che con il proprio lavoro, con la propria vita, hanno fatto grande quell'impianto. Il più visibile e diretto è quello che riguarda il calo della competitività degli impianti: un tempo arrivava lo Stato e con i soldi dei contribuenti salvava capre e cavoli, ma oggi questo, causa le leggi sulla concorrenza imposte dalla Comunità europea, non è più possibile. La Fiat, la più grande azienda italiana, è un esempio di come si possa basare il proprio progetto industriale sul ricatto occupazionale e sugli aiuti di Stato. Per anni, infatti, l'azienda torinese ha usufruito di soldi pubblici che si concretizzavano sotto varie forme: cassa integrazione, incentivi alla rottamazione dei veicoli e agevolazioni fiscali. Ma oggi, visto che il mercato delle auto è fermo, perchè saturo, chiude gli impianti e getta sul lastrico persone che a quell'azienda hanno dato la propria vita.


Un altro tipo di ricatto, ancora più vile e criminale, è quello riferito all'inquinamento prodotto da alcuni siti industriali e all'impossibilità di potersene liberare, dato che quegli impianti danno lavoro a intere città. In pratica ad alcune aziende viene concesso di avvelenare indiscriminatamente aree enormi di territorio, di risparmiare sui filtri, sulle riambientalizzazioni e sulla sicurezza a patto che mantengano costanti i livelli occupazionali. Una logica perversa, questa, di cui tantissime città grandi e piccole sone vittime e da cui è davvero difficile liberarsi
. Purtroppo, lavoratori e cittadini che vivono in città sommerse dai veleni emessi nell'aria, nell'acqua e sul cibo da queste industrie criminali sono costretti, loro malgrado, a barattare la propria salute con uno straccio di lavoro e, cosa ancora più assurda, a ringraziare i propri carnefici. Casi emblematici sono quelli dell'Ilva di Taranto, la più grande acciaieria d'Italia, e la centrale a carbone Enel di Torre Valdaliga nord e sud a Civitavecchia. Questi due poli industriali da cinquant'anni avvelenano le persone che vivono nel circondario e i lavoratori che mandano avanti gli impianti. Finora la cittadinanza non si è ribellata con forza perchè la prospettiva, senza la fabbrica, era quella della disoccupazione, ma ora qualcosa sembra muoversi e le persone hanno capito che la sudditanza verso queste aziende può essere spezzata. L'importante è che non siano lasciate sole a combattere contro giganti del calibro di Enel o dell'Ilva. Tutelare i lori diritti sarebbe compito dello Stato, se il nostro fosse un vero Paese democratico. La nostra costituzione dice che la Repubblica deve garantire eguali opportunità a tutti i cittadini, e che tutti hanno diritto alla salute e a vivere in un ambiente sano per poter concorrere allo sviluppo della nazione. Evidentemente questa, più che una carta costituzionale, in mano ai nostri amministratori diventa solo carta straccia, visto che sempre più persone si ammalano e muoiono per mantenere alti i dividenti di pochi azionisti delle grandi società industriali a cui hanno avuto la sfortuna di dover affidare la propria esistenza.

In conclusione il lavoro oggi in Italia è mero strumento di arricchimento di chi può disporne in grandi quantità, e non di chi lo produce. I lavoratori, in questo nostro fantastico mondo che si sostiene con il capitalismo globalizzato, sono coloro si accollano tutti gli oneri di mandare avanti la lussuosa baracca di pochi infidi maiali, e in cambio ricevono solo veleni, malattie, fame e morte. E' tempo che le cose cambino. E' tempo che qualcuno paghi, e che altri abbiano il giusto compenso, perchè stiamo diventando una Repubblica fondata sulle ingiustizie.

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