martedì 26 gennaio 2010
Bertolaso denuncia la militarizzazione della macchina degli aiuti ad Haiti, ma subito viene richiamato all'ordine
Ebbene si, sono d'accordo con quello che ha detto Bertolaso riguardo alla situazione degli aiuti ad Haiti. Non l'avrei mai detto ma, nella vita si sà, c'è sempre una prima volta. In questo caso il Boss della protezione civile italiana ha solo fatto notare quello che è un dato di fatto: nella piccola isola caraibica gran parte della popolazione colpita dal sisma non ha ancora ricevuto nessun aiuto. E la crescente tensione che si va generando tra la gente è la diretta conseguenza di questa strana situazione. Ieri, addirittura, i caschi blu dell'Onu sono stati assaliti dalla folla inferocita, che aspettava la distribuzione di alcune derrate alimentari. Dalle immagini diffuse dal sito di Repubblica (clikka qui per vedere il video) è palese il divario tra la quantità di cibo e le persone che lo aspettano. Questa situazione è tanto più assurda se si pensa che gli aiuti finora giunti ad Haiti danno la possibilità di rifornire molte più persone di quelle che effettivamente ne stanno beneficiando. Allora perchè? Disorganizzazione, troppo protagonismo Usa, interessi a che tutto ciò accada? Questo non ci è dato sapere dai media comuni. Bisogna sperare nel web per capire meglio come vanno le cose, oppure ascoltare online, ne ho già parlato, Radio Caraibes, che dà la possibilità di avere un filo diretto con Port-au-Prince.
Di fatto gli Stati Uniti, almeno nel passato recente, non hanno dato prova di grande efficienza riguardo alle catastrofi naturali. Basta andare a vedere quello che è successo a New Orleans dopo il passaggio dell'uragano Katrina. In quel caso gli aiuti, oltre che mal distribuiti, arrivarono anche piuttosto in ritardo, con il risultato, anche li, di esasperare gli animi e di dover, poi, far ricorso massiciamente all'uso della forza pubblica. E li eravamo in America, a casa loro. Figuratevi cosa potrà accadere ad Haiti, Paese da sempre al centro degli interessi strategici degli Stati Uniti, quando le proteste e le rimostranze della popolazione arriveranno al parossismo e, allora si, ci sarà bisogno di una pesante mano militare.
Bisogna riconoscere che l'Italia è diventata, a livello politico inernazionale, davvero inesistente, se al capo della protezione civile, di cui il governo ha sempre decantato la sagacia,viene imposta una così umiliante marcia indietro di fronte al fatto che la Clinton si è sentita offesa. Perchè non si analizzano le parole di Bertolaso? E si cercano le cause per cui gli aiuti vengono distribuiti così lentamente? Ma si sa, il nostro governo è sempre pronto a compiacere il grande alleato atlantico, figuratevi contraddirlo o addirittura ammonirlo. La cosa che a me pare lampante è il fatto che Haiti finirà per molto tempo in mano alle forze internazionali con a capo gli Usa, con tutte le conseguenze che si possono immaginare. Non ricordo, almeno dopo la seconda guerra mondiale, di un Paese occupato militarmente dagli americani, pacificamente o non, che non abbia avuto problemi durante e in seguito alla partenza dei militari. Su di Haiti si abbatterà un altro terremoto, che non farà molti morti subito, ma domani chissà.
domenica 24 gennaio 2010
Derby di Milano n°273: è ancora Internazionale
Nonostante il periodo non troppo positivo l'Inter mette in campo gli attributi e da una sonora lezione al Milan, forse troppo sicuro del bel calcio giocato nelle ultime partite. In 10 per quasi 70 minuti, e in 9 negli ultimi 5, l'Inter domina in lungo e in largo, e lo scudetto è sempre più neroazzurro.
Grazie ragazzi!!!!
Campionato del mondo di calcio Sudafrica 2010: un mondiale per soli ricchi
Nel calcio, si sa, tutto è possibile. Durante i novanta minuti può accadere tutto e il contrario di tutto. Ma questo assioma dal 1978, anno in cui all'Argentina dei colonnelli venne concessa la vetrina dei mondiali di calcio, dal campo da gioco si è trasferito nei palazzi del potere che gestisconono il gioco più bello del mondo. E' possibile, infatti, che a un Paese come il Sudafrica, privo di infrastrutture, attraversato da un'infinità di contraddizioni sociali e con un'economia che privilegia pochi a discapito di molti, generando povertà e criminalità diffusa, sia affidata l'organizzazione del massimo appuntamento calcistico mondiale. Il campionato del mondo di calcio è un'enorme fabbrica di appalti e sponsorizzazioni, che fanno affluire nel paese organizzatore un mare di denaro. Ma in una nazione con i problemi sopra indicati tutto ciò può generarne altri e di non poca importanza. Innanzitutto può essere causa di malcontento sociale: dal 1994, anno in cui Mandela diventò presidente e fu ufficialmente abrogata l'apartheid, molte delle promesse fatte dal nuovo governo e dal nuovo partito dominante (l'African National Congress, Anc), sono state tradite, e lo sfarzo della vetrina calcistica mondiale potrebbe andare a cozzare con la povertà diffusa presente nel Paese. A molti neri, che abitano tuttora gli slum sorti ai margini delle grandi città, erano state promesse case e infrastrutture decenti, prima dal governo Mandela e poi dal suo successore, Mbeki. Per costruire stadi nuovi, strade e per adeguare i mezzi di comunicazione per la massa di persone che in quel mese si sposteranno, soprattutto nelle città più grandi, il governo ha speso miliardi di rand (la moneta nazionale). Tutti questi soldi sono stati, finora, negati alla popolazione, che non ha visto il becco di un soldo per far fronte alle esigenze primarie di sviluppo, ma nche di mera sopravvivenza. Tutto ciò potrebbe diventare inaccettabile e inasprire ulteriormente gli animi già tesi delle persone costrette a vivere in povertà, e che solo da qualche vecchio telivisore scassato potranno assistere alle partite. Inoltre una volta conclusa la manifestazione molti impianti rimarranno inutilizzati o, quantomeno, sottoutilizzati, dato che nel Paese non ci sono campionati, nè di calcio, nè di rugby, che è lo sport nazionale, capaci di portare sessantamila persone allo stadio. Dunque le sfarzose strutture diverranno squallide cattedrali nel deserto della povertà sudafricana, a monito della cattiva gestione del denaro pubblico e del menefreghismo dei governanti per le sorti del proprio popolo.
I sudafricani, in particolare i neri, avevano riposto grandi speranze nella fine dell'appartheid. Il loro Paese era la democrazia più promettente dell'intero continente africano: stabile, con un enorme potenziale economico e una classe dirigente mista (bianchi e neri), che finalmente realizzavano i sogni d'integrazione del padre della patria, Nelson Mandela. Purtroppo, però, il sogno è finito presto, e la gente ha dovuto fare i conti con una realtà ben più difficile di quel che si pensava. Criminalità nelle grandi città alle stelle, generata dalla sperequazione economica, povertà diffusa, Aids a livelli allarmanti e una elite nera che ha preso tutti i vizi di quella bianca, con in più la grande colpa di aver tradito la propria gente. Uno degli obiettivi principali della nuova classe politica era quello di creare una media borghesia nera, che avrebbe riequilibrato il divario economico presente nel Paese, così da allargare la partecipazione alla vita politica è sociale. Per realizzare questo, però, si sarebbero dovuti portare a scuola molti dei ragazzi che invece non hanno mai ricevuto un istruzione, condannati a vita alla povertà. L'elite, bianca e nera, vive, come anche in Brasile, prossimo organizzatore dei mondiali di calcio e olimpiadi, dietro mura elettrificate, protetta da guardie armate fino ai denti e con l'eterna paura di subire le ritorsioni di quanti non hanno nulla da mangiare. E' l'esilio dorato di una classe che vive in un altro Paese, non quello abitato dalla gente comune, ma quello fatto di splendidi campi da golf, ville sfarzose e macchine lussuose che diventano, in pratica, i moduli di spostamento dimensionale dalla ricca realtà dei club privati a quella delle splendide abitazioni, non scorgendo, dietro ai vetri oscurati, la triste realtà.
Ma il mondiale sudafricano presenta anche altri problemi, più strettamente organizzativi. In primis la stagione in cui verranno giocati che, se da noi sarà quella estiva, in Sudafrica coinciderà con l'inverno, dando vita al primo campionato del mondo giocato al freddo e con il brutto tempo. Cosa di non poco conto se si pensa che gran parte dei calciatori delle squadre più importanti avranno alle spalle già mesi di partite a temperature estive. Un altro problema è quello dell'affluenza agli stadi: la squadra di calcio nazionale, i bafana bafana (ragazzi terribili), non sono un granchè, e si rischia che non superino nemmeno il primo turno. Questo comporterà il deserto negli stadi, anche perchè la povera gente degli slum non può permettersi di acquistare i biglietti. Si rischia di vedere partite di cartello con stadi strapieni e partite di minore interesse dove gli spettatori saranno giusto lo staff tecnico delle due squadre. Tutto ciò non andrà giù ai capi della Fifa che, per questioni di estetica televisiva, non possono permettersi stadi vuoti. Addirittura si pensa di far entrare gratis la gente del posto o di pagarli per andare a vedere le partite. Staremo a vedere. Quello che già da ora si sà, è che questa srà l'ennesima manifestazione sportiva dove lo spirito dello sport risiederà, forse, solo nei rettangoli di gioco, non di certo all'esterno.
venerdì 22 gennaio 2010
In memoria di Jean Léopold Dominique, The agronomist. Forza Haiti
Jean Léopold Dominique (Port-au-Prince 30 luglio 1930 - Port-au-Prince 3 aprile 2000)
Chiunque abbia letto almeno una volta questo blog si sarà di certo chiesto: perchè l'agronomista? La risposta è semplice: in onore di Jean Dominique, giornalista, attivista, grande haitiano e agronomista. Quest'anno ricorre il decimo anniversario della sua scomparsa e, se fosse ancora tra di di noi, il settantesimo compleanno. Purtroppo il suo infame assassinio ce lo ha portato via, ma non ci ha privati della sua storia, del suo esempio e della sua grande passione per il giornalismo. Una vita spesa ad informare la gente di Haiti, soprattutto i contadini e i poveri della capitale, e a promuovere tra di loro i diritti civili, la democrazia e la coscienza nazionale. Erano anni difficili quelli in cui Jean, armato solo della sua grande passione civile e del microfono della sua radio (Radio Haiti Inter), iniziò la sua opera di divulgazione e di messa a nudo delle angherie del governo haitiano. Erano gli anni di Francois Duvalier (Papa Doc) padre e poi del figlio Jean Claude (Baby doc), i due sanguinari despoti che per decenni hanno afflitto la gente della piccola isola caraibica. Purtroppo anche questo è un periodo difficile per Haiti, anche se non c'entrano la stupidità umana e la dittatura, ma un terribile terremoto che ha praticamente distrutto la capitale. Mi è sembrato dunque opportuno e giusto ricordare questo grande uomo, così attaccato al suo Paese, in un momento così difficile. Jean Dominique è stato, ed è, un simbolo per la sua gente. Memorabile fu il suo ritorno a casa dopo sei anni di esilio negli Stati Uniti, quando il popolo, ormai stremato, si ribellò e cacciò Jean Claude Duvalier. Ad aspettarlo all'aeroporto c'erano 60.000 persone in festa, e lui commosso disse: "per raggiungere questo risultato tutti hanno lottato uniti ad Haiti. Non era mai successo. Dovranno spiegarmi come hanno fatto". Sempre ironico, anche nei momenti più importanti o difficili, come quando per ben due volte i militari distrussero le attrezzature della sua radio e lui, sempre con il sorriso sulle labbra, disse che non si sarebbe mai arreso e che Radio Haiti Inter avrebbe continuato a trasmettere e informare la povera gente haitiana.
Nei prossimi mesi questo blog cercherà di celebrare al meglio l'anniversario della sua scomparsa, proponendo ricerche e con la realizzazione di un audio documentario.
Intanto, se volete conoscere da vicino la storia di Jean Dominique, vi consiglio la visione di un film documentario stupendo, realizzato da Jonathan Demme, regista e amico di Jean, intitolato "The Agronomist". Un affresco toccante, ma allo stesso tempo ironico e divertente, com'è nella natura del protagonista, di questo strano, grande personaggio, che con la sua pipa sempre in bocca, i suoi jeans, il suo cappello di pelle e il suo inconfondibile modo di parlare e di coinvolgere le persone ha sognato un futuro migliore per il suo Paese.
Allora, in memoria di Jean Léopold Dominique, giornalista, attivista, umanista ma, fondamentalmente, agronomo. Forza Haiti. Grazie Jean.
Nuove proposte d'impresa: SURevolution, e la moda aiuta i sud del mondo_Meeting mondiale dei giovani
Anche la moda può contribuire alla creazione di un futuro più sostenibile. Può avvicinare un mondo all’altro all’insegna del rispetto e della solidarietà. Ne è convinta Marcella Echevarria, giornalista e stilista colombiana, direttrice di SURevolution, un progetto imprenditoriale di successo che ha messo in connessione la produzione artigianale indigena del sud del mondo con le reti di distribuzione dei mercati occidentali. «La moda è un’industria culturale e deve essere intesa come tale. Può veicolare un contenuto, dei messaggi - sostiene Echevarria, dal palco del meeting mondiale dei giovani, che si è chiuso ieri a Bari -. L’imprenditorialità è una pagina bianca, invece, utile alla risoluzione di alcuni problemi, senza ricorrere alle istituzioni». È proprio mescolando lo spirito imprenditoriale al rispetto delle diversità culturali che SURevolution ha dato la possibilità a molti artigiani e artisti locali di proporre i propri prodotti a rischio di estinzione, e di sopravvivere vincendo la partita della globalizzazione. «Il progetto è partito in Colombia –spiega l’imprenditrice-, ogni prodotto parla della cultura da cui proviene. Prima di diventare un’icona di moda è un veicolo di valori e tradizioni». Bracciali, collane, borse e accessori per la casa, i manufatti di SURevolution hanno delle caratteristiche fondamentali, che Marcella Etchevarria riassume con tre termini: «sociale, artigianale e verde – e aggiunge -, questa esperienza è la prova che anche un impresa orientata alla sostenibilità e al rispetto per i lavoratori può generare ingenti profitti». La diversità, dunque, e l’interazione tra culture , esperienze e idee diverse è la chiave di volta del futuro. «La creatività è favorita dal contatto tra persone provenienti da diverse aree geografiche e culturali », sostiene Irene Tinagli, docente all’università Carlo III di Madrid e attenta osservatrice delle dinamiche dell’innovazione economica, che ha invitato i ragazzi a confrontarsi con la modernità, cercando soluzioni creative ai problemi che presenta. «Le sfide che il mondo globalizzato pone all’attenzione delle nuove generazioni riguardano essenzialmente tre campi: educazione, lavoro e inclusione sociale». Secondo la Tinagli i cambiamenti avvenuti repentinamente in epoca postmoderna «non sono stati accompagnati da un adeguato riassetto del sistema educativo». È proprio questo il nocciolo del problema che, secondo l’economista, è alla base di tutti gli altri: dovrebbe essere infatti la scuola a fornire ai ragazzi gli strumenti per orientarsi e operare nel mondo. «Ci sono Paesi all’avanguardia che offrono sistemi di istruzione di qualità, altri invece fanno fatica ad adattare i propri programmi e metodi alle esigenze del mondo contemporaneo». Una situazione che, secondo la Tinagli, «genera disparità e porta alla dispersione di tanti talenti», così come la paura della differenza e uno scarso sistema di welfare generano precarietà e non incoraggiano certo progetti che si nutrono dell’esperienza di differenti culture.
Luigi Menichilli per Terra
Il sito di SURevolution: clikka qui
giovedì 21 gennaio 2010
Un ponte per Haiti_Meeting mondiale dei giovani
dal meeting di Bari, Rossella Anitori
«Non si può pensare al sisma come al passato. Non è ora di stilare un bilancio, la tragedia è il presente che dobbiamo affrontare». Quando il terremoto ha devastato il suo Paese Eduard era a Chicago. Quando la forza prorompente del sisma ha raso al suolo Port au prince intrappolando sotto le macerie parenti e amici, il giovane haitiano studiava nell’Illinois. La sua famiglia è salva, ma della sua città non è rimasto nulla. Ieri la sua storia è arrivata a Bari, Edurd l’ha raccontata di persona ai partecipanti del meeting mondiale. «L’aiuto non deve essere pensato come un obiettivo a breve termine, ma come un percorso di collaborazione duratura tra Haiti e il resto del mondo». L’invito che il delegato caraibico rivolge alla Comunità internazionale è di non abbandonare l’isola una volta finito di scavare. «Il disastro è sotto gli occhi di tutti - dice -, ma ancora oggi alcune zone sono rimaste escluse dagli aiuti affluiti nell’isola. I dati ufficiali parlano di 70 mila morti, un numero che non corrisponde neanche ad un decimo delle vite sacrificate dal sisma. E in tanti ancora continuano a morire». Eduard parla a un pubblico fatto di coetanei, attivisti, studiosi ed esperti di politica internazionale: «Riuscite a sentire le urla? Il grido di dolore che viene da Haiti?». La piccola isola caraibica ha bisogno di aiuto per ripartire. Ai danni materiali del terremoto si sommano, infatti, quelli psicologici e morali. «Chi è sopravvissuto a questa catastrofe è sotto shock e necessita di nuove energie per ricominciare - continua il ragazzo -. Abbiamo bisogno di sostegno sanitario, alimentare e sicuramente di infrastrutture. Ma non è abbastanza. Per rilanciare lo sviluppo economico del Paese, annichilito dal sisma, servono soprattutto risorse umane». Eduard indica per il suo popolo la strada dello sviluppo sostenibile e lancia un appello ai giovani di tutto il mondo: «Evitare un terremoto non è possibile, ma si può fare in modo che le sue conseguenze non siano a tal punto catastrofiche». Il giovane haitiano si riferisce alla necessità di costruire case piu sicure, «antisismiche». Un monito che vale per Haiti, ma anche per l’Italia ancora scossa dal terremoto che ha colpito l’Abruzzo. Una pianificazione urbana sostenibile va a beneficio, secondo Eduard, non solo della sua Repubblica ma anche del resto del mondo. Il silenzio commosso si risolve in un sorriso: «Bisogna trarre qualcosa di buono anche da tutto questo» conclude. La speranza è che il popolo della piccola isola caraibica possa presto voltare pagina.
Per seguire tutti gli aggiornamenti dal luogo del disastro, da una voce che non è quella ufficiale dei media internazionali che propongono continuamente solo immagini di caos e disperazione, seguite Radio televisione Caraibes, l'unica emittente haitiana ancora funzionante. Fondamentalmente il grande merito di questa radio è quello di mostrare al mondo anche la voglia di ricominciare e le modalità di autogoverno dei quartieri di Port au Prince, in cui si sono formati innumerevoli comitati che si occupano di tutto: dal primo soccorso fino a rimettere in piedi una parvenza di normalità.
Clikkate qui per ascoltare online Radio Caraibes FM 94.5
Alla ricerca di soluzioni_Meeting mondiale dei giovani
Alla ricerca di soluzioni. Vengono dal Camerun, dall’India, dalla Moldavia, dal Brasile, dalla Cina. Con le loro sciarpe e i foulard, indossano abiti etnici, cappucci di pelliccia e portano con se il germe del cambiamento. Sono giovani attivisti, esperti di politica internazionale, coordinatori di reti nazionali e globali giunti a Bari con un obiettivo comune: unire le forze per dare corso a un futuro migliore. L’anno internazionale dei giovani promosso dall’Onu è partito dall’Italia. In vista del vertice di Città del Messico e del Fifth youth congress di Istanbul, il ministero della Gioventù e la Regione Puglia hanno dato il via al meeting mondiale. «Il futuro non è finito», recita lo slogan della manifestazione. Nei padiglioni all’interno della Fiera del levante, struttura adibita a ospitare l’evento, si discute di sostenibilità, di energia e rifiuti, fame e povertà, di pari opportunità, cittadinanza e democrazia, ma soprattutto di partecipazione. Di come incentivare e garantire il coinvolgimento delle nuove generazioni. Secondo Rocio, che viene dall’Argentina, «spetta ai giovani inserirsi negli spazi decisionali, senza aspettare che siano gli altri a offrire loro le possibilità». Marta, invece, che viene dall’esperienza di un’associazione culturale in provincia di Venezia parla della «fatica» nel coinvolgere i ragazzi, del «disinteresse diffuso» ma anche della «difficoltà nell’individuare percorsi di partecipazione attiva» e assegna quindi un ruolo fondamentale alle istituzioni, «che dovrebbero facilitarla». Yeruti, paraguaiana, lavora per una ong di Washington e lamenta una mancanza di coinvolgimento generale: «I giovani non sono considerati come partner sociali ufficiali – dice -, così che per partecipare ogni volta bisogna combattere. Ma non è giusto, non dovremmo lottare per ottenere il nostro posto, dovrebbero essere la società civile e le generazioni precedenti a offrirci la sedia». Il dibattito prosegue in un crescente afflato, una mano dopo l’altra reclama la parola, il peso delle barriere linguistiche viene meno, ognuno indossa un paio di cuffie e le traduttrici non hanno un attimo di tregua. «Bisogna individuare una strategia di mobilitazione collettiva». Non ha dubbi Rudi, che viene dal Camerun e ha già partecipato al terzo forum mondiale della gioventù nel 1998, «era la prima volta che uscivo dal mio Paese – racconta -, è stata un’esperienza meravigliosa. Tornato a casa ho scritto una relazione su quanto emerso durate il meeting e l’ho consegnata al presidente della Repubblica. Oggi sono consulente per le politiche nazionali giovanili». Il futuro dei giovani è il futuro del Pianeta, ma di certo le nuove generazioni non potranno essere ritenute responsabili di ciò che accadrà se non verrà concessa loro la possibilità di partecipare alla pianificazione del domani. Guglielmo Minervini, assessore alla trasparenza e alla cittadinanza attiva della provincia di Bari, fa una distinzione tra le «politiche per i giovani» e le «politiche con i giovani», sottolineando che solo queste ultime sono in grado di produrre grandi cambiamenti. «Le istituzioni sono condensati che incrostano la concezione del potere - aggiunge -, non più sufficienti, nel mondo in cui viviamo, a risolvere i problemi, c’è bisogno di molta energia, della partecipazione di tutti». Sono in tanti, ognuno con il proprio bagaglio culturale, convinti che integrare le diverse esperienze sia la loro carta vincente. «Solo coloro che sono abbastanza folli da pensare di cambiare il mondo possono cambiarlo davvero» sosteneva Gandhi, e l’impressione è che qui si stia consumando questo gesto di follia.
Alcuni Link per chi vuole saperne di più:
Clikkate qui per accedere al sito ufficiale dell'incontro
Alcune immagini dal meeting
mercoledì 20 gennaio 2010
Per seguire passo dopo passo la vicenda del terremoto ad Haiti: Radio Caraibes Fm
Radio Caraibes Fm
Basalto, le miniere dei nuovi predatori (con foto scattate dal Cisa che testimoniano la presenza di acqua sorgiva sul piazzale di cava)
REPORTAGE L’altopiano dell’Alfina, al confine tra Lazio e Umbria, è in pericolo. L’intensa attività estrattiva sta minando il bacino idrogeologico e le potenzialità di sviluppo del territorio. Viaggio nel vuoto legislativo di un Paese alla mercè degli interessi speculativi di una potentissima casta.
Una minaccia incombe sull’Altopiano dell’Alfina. L’immensa riserva di acqua potabile al confine tra Lazio e Umbria e un paesaggio di inestimabile valore, patrimonio della comunità, potrebbero essere compromessi dalle mire affaristiche di pochi imprenditori minerari. L’attività estrattiva, intensa nella zona, costituirebbe infatti un pericolo per il territorio. A stimolare gli appetiti dei cavatori è il basalto, una pietra di origine vulcanica impiegata nelle massicciate stradali e ferroviarie. Un business estremamente remunerativo a cui le amministrazioni locali non porrebbero alcun limite. Ruspe e macchine escavatrici hanno segnato in modo indelebile l’orizzonte: l’altopiano è costellato da crateri profondi anche 60 metri. A farne le spese l’industria turistica e l’integrità dell’acquifero, serbatoio di gran parte del territorio circostante e cardine dell’equilibrio idrico del lago di Bolsena.
«L’attività estrattiva è incompatibile con la conservazione della risorsa idrica».
Lo sostengono le associazioni ambientaliste e i comitati civici, che da anni si battono per la difesa dell’Alfina. «Il nostro non è allarmismo ingiustificato - sostiene Vittorio Fagioli, coordinatore del Comitato interregionale per la salvaguardia dell’Alfina (Cisa) -. Non si tratta di ipotesi ma di affermazioni documentate: per esempio, nel Comune di Acquapendente, nella cava di basalto de Le Greppe, in coltivazione da parte della ditta Gioacchini Sante sas, il materiale fotografico raccolto dal comitato mostra senza alcun dubbio la fuoriuscita costante e abbondante di acqua dal fondo del piazzale di cava, che dista poche decine di metri dai pozzi comunali di captazione dell’acqua potabile ». Si tratta di filmati e fotografie che coprono un arco temporale che va dall’aprile del 2006 al maggio del 2009, rilevazioni che sono state inserite in un esposto-denuncia recentemente presentato alle Procure della Repubblica di Viterbo e di Orvieto, ai Noe di Roma e di Perugia e al Corpo Forestale dello Stato di Acquapendente.
Ad accompagnarci a ridosso del perimetro della cava è Marco Carbonara, presidente dell’Assal , l'Associazione per lo sviluppo sostenibile e la salvaguardia dell’Alfina. I mezzi sono fermi; numerosi rigagnoli d’acqua solcano l’area di scavo. «È come se questo territorio fosse una spugna imbevuta di acqua - spiega Carbonara -. Dove tagli, dove scavi esce acqua ». I cavatori però dicono che non hanno mai intercettato alcuna falda. «Sono 4 anni che seguiamo questa vicenda - aggiunge -. Faccio l’agricoltore e non ho tempo né soldi per fare questa battaglia. Eppure devo farlo. Sto portando avanti il lavoro che dovrebbero fare l’assessorato regionale all’Ambiente, il settore tecnico dell’ufficio di Acquapendente e, possibilmente, i sindaci di un paio di Comuni».
Sulla vulnerabilità dell’acquifero alfino concordano numerosi studi idrogeologici, svolti sia da enti pubblici che da società private. «Siamo in presenza di un sistema a multifalda i cui acquiferi sono costituiti da colate laviche fessurate - sostiene il geologo Francesco Antonio Biondi, docente all’università della Tuscia -, con falde superficiali in interconnessione con quelle più profonde, e quindi a elevato rischio di inquinamento se esposte ad attività estrattiva. La contaminazione di una falda potrebbe portare, a caduta, all’inquinamento di tutte le altre». La perizia idrogeologica del professor Biondi trova conferma nelle valutazioni tecniche dell’Agenzia regionale per la salvaguardia ambientale (Arpa), che sottolinea «l’elevata vulnerabilità del sistema».
Il quantitativo di acque contenute nel bacino sotterraneo è enorme (stimabile per difetto in circa 1.000 litri al secondo) e la rilevanza dell’acquifero è interregionale: alimenta, infatti, sia i principali gruppi sorgivi umbri dell’area orvietana che il lago di Bolsena, bacino senza altri immissari, tanto che un diminuito afflusso di acqua dall’altopiano produrrebbe seri danni all’ecosistema lacustre e all’approvvigionamento di acqua potabile. «L’attività di cava è utile - conclude Biondi -, ma dovrebbe essere ragionata in un sistema più vasto di priorità». È sulla base di queste considerazioni che il Cisa richiede agli enti preposti di «assumere i necessari provvedimenti per la tutela della salute pubblica, e di escludere la possibilità di ampliamento e apertura di nuove cave sull’altopiano dell’Alfina».
In questo senso c’è un precedente importante: una sentenza del Tar dell’Umbria (n. 554/2008) che ha bloccato l’autorizzazione, concessa dal Comune di Orvieto alla ditta Sece spa, per l’ampliamento della cava “del Botto” situata in località Canale, accogliendo il ricorso di un privato cittadino. Sentenza però che è stata prima sospesa e poi annullata dal Consiglio di Stato. Contro il Tar dell’Umbria si sono schierati la ditta escavatrice, l’Assocave e la Confindustria, appoggiati dal Comune di Orvieto e dalla Regione Umbria. «È vergognoso », commenta l’avvocato Fausto Cerulli, intervenuto ad opponendum, a tutela delle associazioni Wwf Italia, Legambiente Umbria, Amici della Terra e Ape, nel controricorso al Consiglio di Stato. Secondo Cerulli, quella del Tar dell’Umbria è stata una «sentenza storica», un fatto totalmente nuovo nella giurisprudenza amministrativa del Paese che ha riconosciuto il diritto di un cittadino a ricorrere in nome del rispetto dei valori ambientali e di tutela della salute garantiti dall’articolo 32 della Costituzione italiana.
«È incredibile che il Comune di Orvieto e la Regione Umbria si siano schierate dalla parte del mero profitto individuale, facendosi carico degli interessi di una società privata, anziché far valere la salvaguardia dell’ambiente». Per l’avvocato «è evidente che sono entrati in gioco grandissimi interessi, perché se la sentenza del Tar avesse fatto stato avrebbe creato certamente problemi a tutti gli speculatori, facendo prevalere la tutela della salute e dell’ambiente sul profitto individuale». Nel controricorso Cerulli ha dunque esaltato il valore della decisione del Tribunale amministrativo facendo riferimento a una sentenza della Corte di giustizia europea (2/10/2001), che sancisce la «primazia» del bene comune su qualsiasi interesse economico privato.
«Paradossalmente conclude il legale - il Consiglio di Stato motiva tra l’altro la propria decisione ammettendo che dare ragione al Tar avrebbe significato dichiarare incostituzionale la legge regionale umbra. Non aver sollevato la questione di incostituzionalità costituisce una gravissima inadempienza da parte del Consiglio di Stato». Nonostante questa battuta d’arresto, però, le associazioni non intendono gettare la spugna: «Stiamo valutando il ricorso alla Corte europea per i diritti dell’uomo - dice Fagioli -. Quello in corso è uno scontro tra il mero profitto e il bene comune, una battaglia di enorme importanza, non solo giuridica, ma soprattutto politica».
L’impegno a volte premia. Soprattutto se viene riconosciuto come tale dall’intera comunità. È successo a Benano, un paese alle porte di Orvieto di appena 200 anime nel periodo estivo. «I residenti non ne hanno voluto sapere di aprire una cava - racconta Roberto Minervini, biologo marino all’università della Tuscia, impegnato nella lotta per la salvaguardia dell’Alfina -. A nulla sono valse le rassicurazioni dei politici locali. Ricordo ancora, sono stati giorni di fuoco. Il no arrivò durante un’assemblea cittadina tenutasi nella piazza del paese. Il fronte del dissenso fu talmente compatto che il sindaco promise di non dare parere positivo all’apertura della cava, nonostante Provincia e Regione avessero già espresso il loro assenso».
Vinta una battaglia a Benano, la guerra continua però in tutta l’Alfina, dove sono già stati approvati gli ampliamenti di alcuni scavi. La legislazione in materia, infatti, non è omogenea, e in assenza di un piano nazionale, spetta alle amministrazioni locali il compito di gestire l’attività estrattiva. Da nord a sud del Paese il quadro è piuttosto vario. Il contesto delle regole è generalmente incompleto: alcune Regioni - tra cui il Lazio - non si sono mai dotate di un piano cava, altre invece lo hanno fatto, ma in maniera sommaria. Discrezionalità e interessi sono all’ordine del giorno e spesso le disposizioni normative in materia fotografano semplicemente le richieste dei cavatori.
«Il Piano regionale dell’attività estrattiva dell’Umbria prevede il diniego all’apertura di nuove cave - spiega Minervini -, ma è di manica larga riguardo l’ampliamento dei siti già esistenti. E in questo modo da un lato limita la concorrenza escludendo nuove imprese dal business, dall’altro concede alle ditte che gestiscono una cava di effettuare ampliamenti enormi, portando uno scavo anche da 4 a 40 ettari. Poi c’è il problema della riambientalizzazione - aggiunge il biologo -. La legge prevede che le aziende debbano ripristinare le aree di scavo, in realtà però questo obbligo spesso non viene ottemperato e il territorio rimane irrimediabilmente danneggiato. A volte i cavatori, dopo aver esaurito l’area mineraria, non ritombano le cave, e solo in Umbria ci sono circa 640 siti non ripristinati. Altre volte, invece, vecchie cave dismesse non ritombate vengono utilizzate per successivi ampliamenti ».
Un business agevolato, dunque, ed estremamente conveniente. Il giro d’affari del settore minerario raggiunge cifre da capogiro. In un’intervista rilasciata al portale web Myexl, Gianluca Pizzuti, imprenditore a capo della Basalti Orvieto srl, ammette che il fatturato annuo «di una cava di medie dimensioni può raggiungere la quota di 5-6 milioni di euro». Mentre le aziende di produzione e commercializzazione di prodotti estrattivi che raggruppano più cave possono arrivare a fatturare «anche 35-40 milioni». Un ricavato considerevole, specie se si tratta di una torta che viene spartita tra pochi: tra lavoratori dipendenti e indotto il numero degli occupati è estremamente basso e le licenze di escavazione hanno costi esigui. Mentre i danni per la comunità sono ingenti e irreversibili.
A essere compromesse non sono solo le risorse idriche e l’ambiente naturale, ma anche l’industria turistica che fa del paesaggio il suo punto di forza. È quello che sta succedendo a Proceno, un piccolo borgo medioevale in provincia di Viterbo, primo Comune che la via Francigena incontra entrando nel Lazio, e sede di un castello del XII secolo perfettamente conservato, dichiarato monumento nazionale. Da qualche tempo le ruspe hanno iniziato a mangiare la terra, ingurgitando assieme al basalto le potenzialità di sviluppo dell’area. «In stridente contrasto con la vocazione del territorio e con la sua stessa economia, che ha fatto della sostenibilità una strategia vincente, l’amministrazione comunale ha concesso l’apertura di una cava», spiega Giovanni Bisoni, presidente del Comitato per la tutela e lo sviluppo compatibile del territorio Alta Tuscia di Proceno. Là dove soltanto tre anni prima il Comune voleva istituire un parco a difesa della valle dello Stridolone, un torrente considerato sito naturalistico di interesse interregionale.
La cava oggi sovrasta il pianoro e incombe sul paese a meno di un chilometro dalle prime case. Il cambio di destinazione d’uso da territorio agricolo a estrattivo è avvenuto nel 2007. Giusto un anno prima la Basalti Proceno srl aveva presentato alla Regione Lazio un progetto di apertura di una cava nella stessa località. Progetto di cui la popolazione del piccolo borgo è venuta a conoscenza solo un anno dopo, quando la pratica era già in fase di avanzata approvazione. «A Proceno quella della cava non è solo un’intrusione visuale - dice Bisoni -. L’azione degli esplosivi utilizzati nel processo estrattivo potrebbero rendere estremamente instabile l’intero gradone lavico con ripercussioni negative per l’abitato, specie per le costruzioni più antiche». In risposta a quella che viene considerata una scelta imprudente da parte del Comune, la Sovrintendenza per i beni architettonici e paesaggistici delle province di Roma e Viterbo ha deciso di ampliare il precedente vincolo di tutela dal castello alla Rocca di Proceno.
«Questo provvedimento però non ha valenza retroattiva - conclude Bisoni -, ma costituisce comunque un limite all’ampliamento del sito minerario». Dalla cava de Le Greppe a quella del Botto fino a Proceno, l’attività estrattiva sull’altopiano dell’Alfina deve essere regolamentata e contenuta. Le cave rischiano altrimenti di diventare un buco nero capace di annientare ogni energia che gli gravita attorno. Per scongiurare questo pericolo il Comitato per la salvaguardia dell’Alfina ha richiesto e ottenuto un tavolo di confronto interregionale che si terrà domani a Perugia. All’incontro a cui sono stati chiamati a partecipare, oltre le due Regioni Umbria e Lazio, le province di Terni e Viterbo e i Comuni di Orvieto, Porano, Bolsena, Proceno, Acquapendente, San Lorenzo Nuovo, Castel Viscardo, Castel Giorgio si cercherà di stipulare un accordo, un “contratto per l’Alfina”, per valorizzare le risorse ambientali e proteggere il territorio dalla voracità degli speculatori.
martedì 19 gennaio 2010
Prima giornata di lavori, a Bari, per il meeting mondiale dei giovani
Al via a Bari il meeting internazionale dei giovani. Dal 19 al 21 gennaio 1500 delegati da tutto il mondo invaderanno pacificamente la città
lunedì 18 gennaio 2010
domenica 17 gennaio 2010
Due chicche calcistiche senza tempo: Ameri a Mexico 70 e Ciotti in Italia Nigeria, Usa 94
Ameri in Italia-Germania 4-3, semifinale di Mexico 1970
Con questo post voglio segnalare un sito, davvero ben fatto e ricco di materiali, a tutti gli sfegatati amanti del pallone. Se come me avete la malattia, allora potreste perdervici per ore e ore. Clikkate qui per accedere a "Storie di calcio".
sabato 16 gennaio 2010
La riabilitazione di Craxi e la marchetta di Minzolini
Questo è l'editoriale del direttore del tg1, andato in onda il 13/01/2010
Da qualche anno a questa parte nel nostro Paese è in atto una costante opera di rivisitazione perniciosa degli anni di tangentopoli. Operazione che ha alla base la riabilitazione pubblica in primis dell'esperienza politica premanipulite, bistrattata e troppo velocemente definita un totale disastro, e come fine ultimo degli attori politici del periodo. Naturalmente il massimo esponente dell'ultimo tratto di quella che, erroneamente, viene chiamata la prima repubblica, l'imputato eccellente, il simbolo della decadenza morale e politica del nostro paese è Bettino Craxi. Di fatto uno statista (bisogna vedere però di che tipo), anche perchè presidente del consiglio dalla metà del 1983 alla metà del 1987, in due governi consecutivi. Primo socialista a ricoprire la carica di premier, negli anni del cosiddetto pentapartito (Psi, Psdi, Dc, Pri e Pli). Il giudizio su Craxi genera inevitabilmente opinioni contrastanti: se da una parte la sua opera politica riformatrice è innegabile, ma anche suscettibile di valutazione e di certo non in assoluto positiva, dopo anni di deleterio immobilismo, dall'altra le sentenze a suo carico passate in giudicato, i vari conti personali carichi di denari provenienti dalle casse pubblice e la scelta della latitanza in Tunisia pesano non solo sul giudizio riferito all'uomo, ma anche, e soprattutto, su quello riferito al suo agire politico. Nessuno mette in dubbio che la pratica del finanziamento illegale ai partiti, nell'ambito di una legge che sembrava fatta apposta per favorirla, è stata qualcosa di diffuso a ogni livello e a cui tutte le fazioni politiche hanno fatto ricorso, ma dire che "tutti ladri è uguale a nessun ladro" è a mio parere piuttosto sbagliato. E' altrettanto vero che la questione, prima che a livello giudiziario, doveva essere affrontata a livello politico, ma la stura all'analisi e alla ricerca di soluzioni per il problema è inequivocabilmente stata data dalle inchieste sulla corruzione pubblica. Non credo che la lungimirante politica italiana avrebbe affrontato la questione se non fosse stato per la decimazione politica realizzata nei tribunali. Tornando a Craxi, il giudizio sulla sua opera deve essere ben ponderato e bilanciato tenendo conto anche dei suoi conti privati e della sua latitanza, che non denota affatto una profonda fiducia nelle istituzioni, da lui spesso decantata. Se davvero l'ex premier era convinto della sua innocenza, prima che giudiziaria, politica, perchè non ha affrontato in parlamento e nei tribunali coloro che gli contestavano fatti innegabili?
La marchetta del direttore di Rai uno, Minzolini, è patetica, prima ancora che pericolosa, per vari motivi: innanzitutto perchè esula completamente dall'aspetto giudiziario e dal fatto che Craxi non ha utilizzato il denaro solo per finanziare il suo partito, ma soprattutto per rimpinzare le sue tasche. Dire che la democrazia costa, giustificando in parte la diffusa corruzione presente, tuttora, in Italia, è deleterio per lo spirito civico del nostro Paese, già ai minimi storici, e sembra quasi avallare l'italica propensione alle scorciatoie, all'idea che il fine giustifica sempre e comunque il mezzo. Nulla di più sbagliato se davvero, almeno idealmente, pensiamo alla politica come a una forma di integerrimo spirito di abnegazione alla causa pubblica. Gli interessi delle varie parti, e i vari modi di vedere la nostra vita sociale possono e devono trovare una sintesi, a volte anche dopo una dura contrapposizione ma sempre rimanendo nell'alveolo della legalità, altrimenti diventa impossibile per un cittadino fidarsi della politica. L'altra menzogna eclatante di Minzolini riguarda l'aver accostato Craxi a Reegan e Giovanni Paolo II, realizzando un minestrone storico di dubbio gusto. Il direttore della prima fonte informativa degli italiani è convinto che a dare il colpo di grazia all'Urss siano stati questi tre personaggi. Quel che hanno fatto il papa polacco e l'ex presidente degli Stati Uniti in quegli anni è noto a tutti, ma Craxi in che modo avrebbe pesato sulla caduta del regime comunista? Secondo Minzolini il merito dell'ex premier è stato quello di aver dato il via libera all'installazione degli euro missili in Italia, in un quadro tattico che vedeva il nostro Paese al centro di una più vasta opera di sopraffazione militare da parte degli Usa nei confronti della Russia, ma che di certo non si può ascrivere come determinante.
Comunque la si vuol vedere, e qualunque sia il giudizio su Craxi, è poco corretto, soprattutto da parte del direttore del più importante tg pubblico italiano, fornire una versione così falsa e a senso unico su di un uomo e un periodo per il quale gli storici necessitano ancora di molto tempo per analizzare e fornire i mezzi di valutazione. Tenendo, però, sempre in conto l'operato tutto dell'uomo politico, e non solo ciò che ci fà comodo osservare. In conclusione il discorso di Minzolini non aiuta nessuno, nemmeno la figura di Craxi, a formare delle opinioni serene e consapevoli sulla nostra storia politica. Gli italiani sempre più spesso, purtroppo, vengono trattati dal potere e dai media come degli stupidi pecoroni privi di cervello. A tal punto che una mera marchetta mediatica, come quella di Minzolini, riesce a influenzare le opinioni della gente in maniera profonda, perché in nessun altro spazio, o comunque poco, viene data la possibilità di controbattere e analizzare in modo più consono ed efficace la questione. Questo a me non va per niente giù.
Happy tree friends, teneri animaletti splatter
Questo è il link del canale ufficiale su YouTube, dedicato agli Happy tree friends: Mondomedia
giovedì 14 gennaio 2010
La puntata di radio3 Mondo sul terremoto ad Haiti
Radio3 Mondo è una trasmissione che va tutti i giorni in onda su radio tre alle 11:30. Condotta da Emanuele Giordana, è un ottimo esempio di giornalismo serio, curioso e appassionato. Insomma, quello che oggi serve al panorama informativo del nostro paese.
Ecco il link della puntata:
http://www.radio.rai.it/podcast/A0052549.mp3
Terremoto ad Haiti: le rilevazioni dell'Ingv
L’epicentro del terremoto e’ a circa 15 km a Sud-Ovest di Port-Au-Prince, Haiti, 140 km circa ad Est di Les Cayes, Haiti, e circa 145 km a Ovest-NordOvest di Barahona, Repubblica Dominicana. La tettonica di questa regione e’ estremamente complessa, ed e’ caratterizzata dalla presenza di una coppia di grandi faglie trasformi sub-parallele con andamento Est-Ovest, e di due zone di subduzione. Il terremoto del 12 Gennaio 2010 e’ avvenuto sulla faglia trasforme piu’ a Sud, che ha movimento sinistro. Il meccanismo focale di questo evento, quindi, era di tipo trascorrente sinistro, per cui non si sono verificate condizioni tali da generare uno tsunami nella regione. La profondita’ ipocentrale e’ stata di 10 km, e quindi si e’ trattato di un evento crostale superficiale, con grandi capacita’ di infliggere gravi danni alle costruzioni. La popolazione residente nell’area interessata dal terremoto vive in costruzioni generalmente molto vulnerabili allo scuotimento sismico, anche se qualche struttura resistente esiste. In ogni caso, stime fornite dall’ USGS parlano di 3000 persone esposte a scuotimento “estremo”, 1.849.000 persone esposte a scuotimento “violento”, 981.000 a scuotimento “severo”, 433.000 a scuotimento “molto forte”, ed oltre un milione di persone esposte a scuotimento “forte”. Le notizie appena fornite (evento superficiale di grande magnitudo, avvenuto in prossimita’ di aree urbane densamente popolate e particolarmente povere) fanno pensare a conseguenze gravissime per questo terremoto. La regione in questione e’ sede di una sismicita’ di fondo caratterizzata da numerosi eventi di magnitudo inferiore a 5.5, e da alcuni eventi di magnitudo tra 6.5 e 7.0. La sismicita’ strumentale degli ultimi 40 anni circa non ha mai mostrato eventi di magnitudo significativamente maggiore di 7. In particolare, il 24 Giugno 1984 (UTC), un evento di magnitudo 6.7 si verifico’ a circa 330 km ad Est dell’epicentro del 12 gennaio 2010, nella Repubblica Dominicana, provocando l’esposizione di circa 320.000 persone a scuotimento “molto forte”, e di 2.964.000 persone a scuotimento “forte”. In quell’occasione il terremoto provoco’ 5 morti. Recenti eventi sismici avvenuti in quest’area, infine, hanno causato frane che possono aver contribuito ad amplificare i danni del terremoto del 12 gennaio 2010.
Dati evento Event-ID 2210555640 Magnitudo(Mw) 7 Data-Ora 12/01/2010 alle 22:53:09 (italiane)
12/01/2010 alle 21:53:09 (UTC) Coordinate 18.451°N, 72.44°O Profondità 10 km Distretto sismico Haiti region Comuni entro i 10Km
- Comuni tra 10 e 20km
Acca Larentia, un viaggio nel cuore nero della capitale
Di Rossella Anitori e Laura Carrera
PRESENTE E PASSATO. A 32 anni dall’eccidio, il dibattito è ancora aperto. Responsabilità, appartenenza ed elaborazione. Generazioni e generi a confronto. Giovani militanti, nostalgici dell’Msi e nuove leve della politica extra parlamentare insieme per commemorare le loro vittime
«Attenti!», un tacco si allinea all’altro, all’unisono. «Camerata Franco Bigonzetti». Una voce rompe il silenzio. «Presente!», risponde la folla tenendo il braccio destro alzato a mo’ di saluto romano. «Camerata Francesco Ciavatta». «Presente!», ripete la massa stretta nel piazzale antistante la sede che fu dell’Msi. «Camerata Stefano Recchioni». «Presente!», urlano in tanti. E poi: «Riposo!». Le righe si rompono e l’adunanza si scioglie in un applauso. Sono lì, giovani militanti e simpatizzanti dell’estrema destra, anziani nostalgici dell’Msi e nuove leve di una politica extraparlamentare. Ragazzi con la testa rasata e il doppio petto, alti e fieri delle loro bandiere, delle loro spillette.
Si respira un orgoglio di tempi che furono. Sono le 19, quaranta minuti e trent’anni prima, due ragazzi poco più che adolescenti vengono raggiunti dal fuoco di una Skorpion all’uscita della sezione in via Acca Larenzia 28, dove militavano nel Fronte della Gioventù. Poche ore più tardi, durante i disordini scoppiati dopo l’omicidio, un altro ragazzo perde la vita. Questa volta per mano di un ufficiale dell’Arma dei carabinieri, Edoardo Sivori. Giorni dopo il raid viene rivendicato dal gruppo eversivo Nuclei armati per il contropotere territoriale. Una sigla che poi scompare nel nulla. Dell’agguato vengono accusati alcuni ex militanti di Lotta continua, assolti in primo grado per insufficienza di prove. I responsabili del pluriomicidio rimangono a oggi ancora ignoti. Sivori, che spara volontariamente ad altezza uomo, non subisce di fatto alcuna conseguenza venendo condannato per “eccesso colposo di legittima difesa”.
Sono trascorsi trent’anni da quel 1978. Un periodo passato alla storia come un susseguirsi di eventi spietati e cruenti. Qualche settimana dopo i fatti di Acca Larentia è ancora sangue. Giusva Fioravanti, esponente dei Nar, gruppo terroristico d’ispirazione neofascista legato a Ordine nuovo, si macchia dell’omicidio di un ragazzo che identifica dall’aspetto come appartenente alla sinistra. Stavolta però lontano da una sede politica. Fioravanti scende dall’auto e fa fuoco: Roberto Scialabba, 24 anni, cade a terra ferito, poi un colpo alla testa. L’anno dopo, il 9 gennaio del 1979 una bomba molotov esplode all’ingresso di Radio città aperta. Sono anni neri, che si macchiano del rosso del sangue di chi ha scelto una politica violenta. «Sono morti ingiuste», dice Isabella (nome di fantasia), poco più che ventenne, presente alla commemorazione di Acca Larentia. «Quei ragazzi hanno perso la vita senza una motivazione. Erano giovani e non potevano comprendere a pieno quello che facevano, soprattutto le conseguenze che avrebbe avuto per loro e per le famiglie».
Secondo Isabella sono «vittime» di un sistema sbagliato. «Non sono sicura, e forse farò arrabbiare gli altri, ma non credo che una volta divenuti trentenni questi ragazzi avrebbero continuato a combattere per gli stessi ideali. Quel che è certo è che sono stati uccisi per una lotta che era divenuta più grande di loro». Isabella vive a Roma da pochi anni, è originaria di Benevento, ha un nonno che «ha fatto la guerra» e un padre che ha militato nell’Msi e in Ordine nuovo. «Vengo da questo strato culturale e sono cresciuta con questa educazione ma non condivido la politica del partito, tanto meno il teatrino elettorale del Pdl che stamattina è venuto qui fuori. Quei ragazzi non sono morti per quello che loro vogliono farci credere». È indignata, perché la politica «strumentalizzava e strumentalizza» giovani leve mettendo a repentaglio la loro vita, «mandandoli al massacro senza informarli sui reali pericoli. Se fossi nata in quegli anni - aggiunge - probabilmente anch’io sarei stata con loro a combattere avendo alle spalle politici che mi tenevano al guinzaglio».
Teodoro Bontempo, presidente de La destra e allora militante missino, raccolto davanti alla fiaccola che illumina il luogo in cui perse la vita Stefano Recchioni, ricorda però che «nessun giovane militante prima di allora aveva mai perso la vita in uno scontro a fuoco. È una cosa che non è mai stata scritta - dice -. Sono stati ammazzati a freddo, con chilleraggio premeditato. Volevano uccidere in loro “la” idea che portavano nei loro cuori. Essere qui, dunque, vuol dire ricongiungersi idealmente non solo a quei ragazzi ma alla storia dell’Msi».
Le note di O fortuna, poema dei Carmina Burana, accompagnano i saluti tra camerati, Isabella si guarda intorno: «Molti di quelli che sono qui conoscevano direttamente le vittime o le loro famiglie, altri invece vengono solo per sfogarsi, perché sono repressi a casa, perché nessuno li chiama più fascisti. E si riappropriano della loro identità facendo il saluto romano. Quello che mi accomuna a loro è solo il termine camerata, l’atteggiamento con cui affrontiamo questa realtà ci differenzia. Io vedo tanta gente con le celtiche al collo, ma la celtica non è un simbolo, è un impegno. Devi perdere qualcosa se vuoi credere in quest’ideale. È una trasgressione che va pagata anche con il carcere, con la morte. E non me ne vergogno».
Isabella è giovane, nel ’78 non era ancora nata, e il suo è lo sguardo di una ragazza che ha conosciuti quegli anni solo attraverso i libri e i racconti di chi li ha vissuti. Al contrario, Rosalba Valori ne è una testimone. Negli Anni di piombo ha militato nell’Msi, poi in Alleanza nazionale e oggi con La destra di Storace, partito che appoggia l’attuale candidata del Pdl, Renata Polverini alla Regione Lazio. «A quel tempo eravamo coscienti. Per quanto giovani eravamo più maturi dei ragazzi di oggi, consapevoli che potevamo morire per un’idea. La loro, però, rimane una perdita immotivata, simbolo di un disprezzo per la vita». L’avvocato Valori a distanza di tempo continua a mantenere i contatti con la mamma di Francesco Ciavatta, rimasta sola dopo il suicidio del marito in seguito alla scomparsa prematura del figlio. «Questi ragazzi sono sempre vivi tra noi. Crediamo nel valore della fiamma. Una fiamma che è vita, passione e sofferenza, una fiamma che si alimenta di storie come questa. è il nostro simbolo politico, un simbolo che chi è stato negli ultimi tempi presidente di Alleanza nazionale ha tentato in tutti i modi di soffocare - precisa -. Il termine fascismo viene spesso utilizzato impropriamente - dice l’attuale dirigente nazionale de La destra -. Io non mi sono mai ritenuta tale, mussoliniana sì però. Non sono una nostalgica, ma non c’è futuro senza passato, il Codice Rocco, ancora oggi in vigore, ne è l’esempio più evidente».
«Ho attraversato anche periodi tragici nella mia vita, ma ho sempre trovato la forza di reagire. Volere è potere. Il mio interesse attuale è lasciare un’Italia migliore ai miei figli. E per questo combatterò finché Dio me ne darà la forza».
La richiesta che lo Stato italiano trovi il coraggio di fare dei morti di Acca Larenzia un esempio per tutti viene da Adriano Tilgher, responsabile del dipartimento Programma de La destra, in gioventù consigliere del Fuan, nonché fondatore di Avanguardia nazionale, gruppo extraparlamentare disciolto nel 1976, anno in cui Tilgher fu condannato per tentata ricostituzione del partito fascista. «La violenza come strumento di lotta politica è assolutamente da criticare. Come mezzo di difesa dei propri diritti diventa una necessità. Uccidere non ha senso. Quei ragazzi avrebbero avuto cinquant’anni oggi. Una vita stroncata per cosa? E soprattutto, da chi? Chi ha armato quelle mani? Chi ha fomentato la strategia degli opposti estremismi?». Cala la notte su Acca Larentia, il quartiere è tappezzato di manifesti neri. “Una promessa di vittoria. Presente!”. Lo slogan ricorda una minaccia da anni di piombo.
Pubblicato su Terra il 10/01/2010 www.terranews.it
mercoledì 13 gennaio 2010
Perchè Mario Balotelli deve andare via dall'Italia
Nel bene o nel male di Mario Balotelli se ne parla. E se finora la diatriba su questo ragazzo di 19 anni, italiano nero cresciuto nel bresciano, era rimasta confinata al patetico e pedissequo mondo del pallone, ora la sua storia è tracimata nella cronaca sociale e politica del nostro stanco paese. Naturalmente, e come poteva non essere così, la discussione riguarda il colore della sua pelle, l'abominevole dilemma se possono, o meno, esserci italiani neri. Breve digressione: utilizzo l'aggettivo "nero" perchè mi sembra quello più indicato a definire uomini che hanno la pelle di quel colore, e trovo ipocrita e ancora più biancocentrica la definizione "di colore", perchè implica una netta distinzione tra i bianchi e il resto delle possibilità cromatiche umane. Il bianco non è un colore? Va bene. Detto questo passiamo alla penosa vicenda di Mario Balotelli, il più grande talento calcistico italiano degli ultimi anni. In ogni stadio in cui il calciatore dell'Inter mette piede, ogni qual volta tocca palla o lo speaker annuncia il suo nome, si levano dagli spalti ululati spaventosi che sottolineano in modo netto l'avversità del pubblico al colore della sua pigmentazione. I giocatori avversari, conoscendo il focoso carattere del giovane, lo stuzzicano con calcetti, falli e intimidazioni, inducendolo spesso a reazioni che inevitabilmente lo fanno passare dalla parte del torto. Nei dopo partita si sprecano i paternalismi dei vari commentatori televisivi che evidenziano come sarebbe molto meglio che il giovane abbassasse la testa e stesse zitto. E' fuori di dubbio che il ragazzo, a livello caratteriale, per diventare un vero campione deve limare la sua innata tendenza al confronto diretto con queste provocazioni. Ma cercare di mettere in cattiva luce un ragazzo di soli 19 anni, che sulle spalle, a livello simbolico, porta il peso della nuova Italia multietnica è davvero scaoncertante. Balotelli, oltre a essere un patrimonio calcistico italiano, è l'emblema dell'Italia che cambia, che si evolve, che accetta e accoglie nella propria cultura e storia persone di colore diverso da quello tipico nazionale. Purtroppo non è così. La cosa più brutta e disdicevole non è tanto il razzismo, che negli stadi abbonda, quanto l'ignoranza e la riluttanza del pubblico, e più in generale dell'italiano medio, ad accettare l'inevitabile evolversi del tessuto sociale nazionale. Perchè, è un dato di fatto, non tutti i giocatori neri vengono sommersi dagli improperi del pubblico. Balotelli è antipatico, sbruffone, bravo con la palla tra i piedi e fà paura, calcisticamente, ai tifosi avversari che, invece di fischiarlo in quanto, appunto, avversario, sottolinenano immancabilmente il suo essere italiano nero. Perchè mai un ragazzo di 19 anni dovrebbe portare sulle proprie spalle questo fardello? Perchè mai, così bravo, non dovrebbe raccogliere con serenità i frutti del suo talento? E perchè mai, ribadendo ancora una volta il suo carattere difficile, non dovrebbe essergli concesso di maturare e rendesrsi tranquillamente conto che deve cambiare? Probabilmente la pressione su di lui aumenterà sempre di più, attizzata da una stampa sempre pronta a coglierne l'immaturità. A Balotelli io dico: emigra. Lascia questo paese che, purtroppo, e anche il tuo, e vai a giocare in Inghilterra, in Spagna o in qualsiasi altro paese dove potrai guadagnare una montagna di soldi, far vedere quello che vali, e prenderti i tuoi ceffoni quando sbagli. Ma sempre perchè sei uno sbruffone, forte con la palla tra i piedi, e mai perchè sei nero.