giovedì 14 gennaio 2010

Acca Larentia, un viaggio nel cuore nero della capitale


Di Rossella Anitori e Laura Carrera



PRESENTE E PASSATO. A 32 anni dall’eccidio, il dibattito è ancora aperto. Responsabilità, appartenenza ed elaborazione. Generazioni e generi a confronto. Giovani militanti, nostalgici dell’Msi e nuove leve della politica extra parlamentare insieme per commemorare le loro vittime

«Attenti!», un tacco si allinea all’altro, all’unisono. «Camerata Franco Bigonzetti». Una voce rompe il silenzio. «Presente!», risponde la folla tenendo il braccio destro alzato a mo’ di saluto romano. «Camerata Francesco Ciavatta». «Presente!», ripete la massa stretta nel piazzale antistante la sede che fu dell’Msi. «Camerata Stefano Recchioni». «Presente!», urlano in tanti. E poi: «Riposo!». Le righe si rompono e l’adunanza si scioglie in un applauso. Sono lì, giovani militanti e simpatizzanti dell’estrema destra, anziani nostalgici dell’Msi e nuove leve di una politica extraparlamentare. Ragazzi con la testa rasata e il doppio petto, alti e fieri delle loro bandiere, delle loro spillette.

Si respira un orgoglio di tempi che furono. Sono le 19, quaranta minuti e trent’anni prima, due ragazzi poco più che adolescenti vengono raggiunti dal fuoco di una Skorpion all’uscita della sezione in via Acca Larenzia 28, dove militavano nel Fronte della Gioventù. Poche ore più tardi, durante i disordini scoppiati dopo l’omicidio, un altro ragazzo perde la vita. Questa volta per mano di un ufficiale dell’Arma dei carabinieri, Edoardo Sivori. Giorni dopo il raid viene rivendicato dal gruppo eversivo Nuclei armati per il contropotere territoriale. Una sigla che poi scompare nel nulla. Dell’agguato vengono accusati alcuni ex militanti di Lotta continua, assolti in primo grado per insufficienza di prove. I responsabili del pluriomicidio rimangono a oggi ancora ignoti. Sivori, che spara volontariamente ad altezza uomo, non subisce di fatto alcuna conseguenza venendo condannato per “eccesso colposo di legittima difesa”.

Sono trascorsi trent’anni da quel 1978. Un periodo passato alla storia come un susseguirsi di eventi spietati e cruenti. Qualche settimana dopo i fatti di Acca Larentia è ancora sangue. Giusva Fioravanti, esponente dei Nar, gruppo terroristico d’ispirazione neofascista legato a Ordine nuovo, si macchia dell’omicidio di un ragazzo che identifica dall’aspetto come appartenente alla sinistra. Stavolta però lontano da una sede politica. Fioravanti scende dall’auto e fa fuoco: Roberto Scialabba, 24 anni, cade a terra ferito, poi un colpo alla testa. L’anno dopo, il 9 gennaio del 1979 una bomba molotov esplode all’ingresso di Radio città aperta. Sono anni neri, che si macchiano del rosso del sangue di chi ha scelto una politica violenta. «Sono morti ingiuste», dice Isabella (nome di fantasia), poco più che ventenne, presente alla commemorazione di Acca Larentia. «Quei ragazzi hanno perso la vita senza una motivazione. Erano giovani e non potevano comprendere a pieno quello che facevano, soprattutto le conseguenze che avrebbe avuto per loro e per le famiglie».

Secondo Isabella sono «vittime» di un sistema sbagliato. «Non sono sicura, e forse farò arrabbiare gli altri, ma non credo che una volta divenuti trentenni questi ragazzi avrebbero continuato a combattere per gli stessi ideali. Quel che è certo è che sono stati uccisi per una lotta che era divenuta più grande di loro». Isabella vive a Roma da pochi anni, è originaria di Benevento, ha un nonno che «ha fatto la guerra» e un padre che ha militato nell’Msi e in Ordine nuovo. «Vengo da questo strato culturale e sono cresciuta con questa educazione ma non condivido la politica del partito, tanto meno il teatrino elettorale del Pdl che stamattina è venuto qui fuori. Quei ragazzi non sono morti per quello che loro vogliono farci credere». È indignata, perché la politica «strumentalizzava e strumentalizza» giovani leve mettendo a repentaglio la loro vita, «mandandoli al massacro senza informarli sui reali pericoli. Se fossi nata in quegli anni - aggiunge - probabilmente anch’io sarei stata con loro a combattere avendo alle spalle politici che mi tenevano al guinzaglio».

Teodoro Bontempo, presidente de La destra e allora militante missino, raccolto davanti alla fiaccola che illumina il luogo in cui perse la vita Stefano Recchioni, ricorda però che «nessun giovane militante prima di allora aveva mai perso la vita in uno scontro a fuoco. È una cosa che non è mai stata scritta - dice -. Sono stati ammazzati a freddo, con chilleraggio premeditato. Volevano uccidere in loro “la” idea che portavano nei loro cuori. Essere qui, dunque, vuol dire ricongiungersi idealmente non solo a quei ragazzi ma alla storia dell’Msi».
Le note di O fortuna, poema dei Carmina Burana, accompagnano i saluti tra camerati, Isabella si guarda intorno: «Molti di quelli che sono qui conoscevano direttamente le vittime o le loro famiglie, altri invece vengono solo per sfogarsi, perché sono repressi a casa, perché nessuno li chiama più fascisti. E si riappropriano della loro identità facendo il saluto romano. Quello che mi accomuna a loro è solo il termine camerata, l’atteggiamento con cui affrontiamo questa realtà ci differenzia. Io vedo tanta gente con le celtiche al collo, ma la celtica non è un simbolo, è un impegno. Devi perdere qualcosa se vuoi credere in quest’ideale. È una trasgressione che va pagata anche con il carcere, con la morte. E non me ne vergogno».

Isabella è giovane, nel ’78 non era ancora nata, e il suo è lo sguardo di una ragazza che ha conosciuti quegli anni solo attraverso i libri e i racconti di chi li ha vissuti. Al contrario, Rosalba Valori ne è una testimone. Negli Anni di piombo ha militato nell’Msi, poi in Alleanza nazionale e oggi con La destra di Storace, partito che appoggia l’attuale candidata del Pdl, Renata Polverini alla Regione Lazio. «A quel tempo eravamo coscienti. Per quanto giovani eravamo più maturi dei ragazzi di oggi, consapevoli che potevamo morire per un’idea. La loro, però, rimane una perdita immotivata, simbolo di un disprezzo per la vita». L’avvocato Valori a distanza di tempo continua a mantenere i contatti con la mamma di Francesco Ciavatta, rimasta sola dopo il suicidio del marito in seguito alla scomparsa prematura del figlio. «Questi ragazzi sono sempre vivi tra noi. Crediamo nel valore della fiamma. Una fiamma che è vita, passione e sofferenza, una fiamma che si alimenta di storie come questa. è il nostro simbolo politico, un simbolo che chi è stato negli ultimi tempi presidente di Alleanza nazionale ha tentato in tutti i modi di soffocare - precisa -. Il termine fascismo viene spesso utilizzato impropriamente - dice l’attuale dirigente nazionale de La destra -. Io non mi sono mai ritenuta tale, mussoliniana sì però. Non sono una nostalgica, ma non c’è futuro senza passato, il Codice Rocco, ancora oggi in vigore, ne è l’esempio più evidente».
«Ho attraversato anche periodi tragici nella mia vita, ma ho sempre trovato la forza di reagire. Volere è potere. Il mio interesse attuale è lasciare un’Italia migliore ai miei figli. E per questo combatterò finché Dio me ne darà la forza».

La richiesta che lo Stato italiano trovi il coraggio di fare dei morti di Acca Larenzia un esempio per tutti viene da Adriano Tilgher, responsabile del dipartimento Programma de La destra, in gioventù consigliere del Fuan, nonché fondatore di Avanguardia nazionale, gruppo extraparlamentare disciolto nel 1976, anno in cui Tilgher fu condannato per tentata ricostituzione del partito fascista. «La violenza come strumento di lotta politica è assolutamente da criticare. Come mezzo di difesa dei propri diritti diventa una necessità. Uccidere non ha senso. Quei ragazzi avrebbero avuto cinquant’anni oggi. Una vita stroncata per cosa? E soprattutto, da chi? Chi ha armato quelle mani? Chi ha fomentato la strategia degli opposti estremismi?». Cala la notte su Acca Larentia, il quartiere è tappezzato di manifesti neri. “Una promessa di vittoria. Presente!”. Lo slogan ricorda una minaccia da anni di piombo.



Pubblicato su Terra il 10/01/2010 www.terranews.it

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