mercoledì 27 marzo 2013

Israele, il nuovo governo e la questione del fondamentalismo ebraico

Delle vicende che riguardano il medioriente sappiamo molto. Siamo a conoscenza dei vari aspetti che nel corso degli ultimi 60-70 anni hanno funestato quella parte di mondo così cara a tante culture e religioni. Nel corso del '900 il motivo di maggior preoccupazione e polarizzazione delle posizioni è stato il conflitto arabo-israeliano, nella sua declinazione israelo-palestinese, con tutte le sue sfaccettature, massacri, mobilitazioni internazionali e impegno delle varie diplomazie affinchè si arrivasse ad una sintesi e una pace duratura.
Questo post non è dedicato direttamente alla questione mediorentale in quanto scontro tra due popoli, interessi e religioni, ma vuole analizzare più da vicino un problema per lo più taciuto dalla maggior parte della stampa mainstream, che nei prossimi anni potrebbe diventare un ennesimo motivo di tensione regionale e mondiale: la questione è tutta interna alla composizione demografica della società ebraica, con il crescente attrito tra israeliani laici di sinistra e tradizionalisti religiosi ultraortodossi. 

Dopo settimane di stallo e negoziazioni lunedì scorso si è arrivati al giuramento del 33° governo israeliano, il terzo di cui Benjamin Netanyahu sarà premier. Un esecutivo di cento-destra da cui, però, a sorpresa per la prima volta da dieci anni a questa parte sono stati completamente esclusi gli ultraortodossi.
Dalle urne, lo scorso gennaio, era venuta fuori una Knesset (parlamento unicamerale israeliano, che conta 120 seggi) sostanzialmente spaccata e a rischio paralisi. Alla fine si è arrivati ad un compromesso tra il ticket Likud-Yisrael Beitenu (31 seggi), guidato dal neo-premier e Avigdor Lieberman, e la vera novità di questo parlamento, la formazione centrista Yesh Atid (19) capeggiata dall'ex commentatore televisivo Yair Lapid. Gli altri due partiti che hanno consentito a Netanyahu di raggiungere la risicata quota di maggioranza di 68 seggi sono il Focolare Ebraico (HaBayit HaYehudi) di Naftali Bennett e il Movimento (Hatnua) dell'ex ministro degli esteri Tzipi Livni, che possono contare rispettivamente su 12 e 6 deputati.

Per permettere all'esecutivo di nascere, Netanyahu ha dovuto rinunciare alla solida alleanza con i due partiti ultraortodossi più importanti, Shas e United Torah Judaism, avversati dai suoi neo-alleati di Focolare Ebraico e da Yesh Atid di Yair Lapid. Nel  loro programma queste due formazioni hanno presentato riforme che limitano significativamente i privilegi di cui la parte tradizionalista della popolazione ha goduto fino ad oggi. Uno fra tutti l'esenzione per i giovani haredim (studiosi della Torah) dal servizio di leva obbligatoria, che i due partiti vorrebbero invece eliminare. La situazione però è alquanto complicata, perchè nonostante l'assenza degli ultraortodossi le istanze dei coloni sono ben rappresentate da Focolare Ebraico, che si definisce "ortodosso moderato", e al cui leader, Naftail Bennet, è andato il dicastero dell'economia. Bennet in campagna elettorale in più di un'occasione ha palesato il suo interesse a che vengano permessi maggiori insediamenti ebraici nelle terre occupate dai palestinesi. Il nome stesso del suo partito, Focolare Ebraico, è fortemente esplicativo della posizione politica che occupa, in quanto si rifà alla famosa dichiarazione Balfour del 1917 che prefigurava la nascita, per gli ebrei, di un "focolare nazionale", ed è considerato il primo passo per la costituzione dello stato di Israele. Anche Bennet porta in politica il dettato biblico, riguardo alla questione territoriale, ma rispetto agli ultraortodossi è considerato un laico.


In realtà il problema della convivenza fra le due anime che compongono il popolo di dio, e che oggi sono divise da un abisso culturale a tal punto da rappresentare due popoli all'interno della stessa nazione, affonda le proprie radici fin dalla costituzione dello stato israeliano; allora però la componente ortodossa era largamente minoritaria e gli eredi dei kibbutz, laici socialisti fondatori politici dello stato, al potere ininterrottamente fino al 1977 , fecero di tutto per non indispettire e frustrare la parte più tradizionalista della società ma, al contempo, si prodigarono per separare nettamente la sfera pubblica da quella religiosa. Agli haredim venne lasciato ampio margine di scelta e organizzazione delle proprie comunità, a volte chiudendo un occhio e altre addirittura avallando delle richieste palesemente illiberali e inique rispetto al resto della società israeliana.
Questo labile equilibrio, minacciato costantemente dalle crescenti rivendicazioni e proteste degli iper-religiosi, ha tenuto fino all'assassinio del primo ministro socialista Ytzhak Rabin nel 1995, per mano di un colono ebreo estremista che, insieme ad una larga fetta di popolazione, non approvava e non approva le aperture verso gli arabi. Da allora molti sono stati i momenti di intolleranza reciproca tra laici e religiosi culminati nell'episodio dello scorso dicembre quando una bambina di 7 anni di Beit Shemesh è stata presa a sputi, pietre e insulti da alcuni ultraortodossi per non aver rispettato il marciapiede riservato alle donne (nella strada principale della cittadina un lato è riservato agli uomini e l'altro alle donne) e perchè abbigliata in modo "immodesto", con una maglietta a maniche corte ed una gonna colorata che non copriva completamente le ginocchia.
Di colpo la tanto decantata "unica democrazia" liberale del medioriente, con il mondo intero allibito per l'accaduto, si è ritrovata a fare i conti con quello che oggi è uno dei fronti più caldi del confronto-scontro tra le due tendenze che compongono Israele, il "posto" della donna. Secondo i religiosi sarebbe di gran lunga meglio tornare alla tradizione, quando l'uomo serviva la patria e la donna l'uomo.
Gran parte della società israeliana progressista e occidentale ha condannato fortemente l'accaduto e la stampa internazionale ha portato alla ribalta mondiale un fenomeno fino ad allora in larga misura sottaciuto. Tre settimane prima del fatto il segretario di stato USA Hillary Clinton, commentando le direttive sempre più misogene dei rabbini estremisti, aveva esclamato: "sembra di stare a Teheran". Gioco forza, però, non si era dato troppo risalto al commento, ma la brace aveva continuato ad ardere sotto la cenere e il fuoco è divampato prima della fine dell'anno.
Una presa di posizione decisa, anche solo formale, da parte degli Stati Uniti, il più grande alleato del paese sionista, sarebbe stata piuttosto controproducente a livello mediatico. Non bisogna dimenticare che uno dei tanti motivi addotti per scatenare la guerra in Afghanistan è stato proprio quello relativo alla condizione della donna nel paese del "grande gioco".

Lo stato ebraico sta diventando sempre più religioso. A dimostrarlo non è solo l'eplosione del numero di sinagoghe costruite negli ultimi anni, ma soprattutto i dati: nel suo ultimo rapporto l'Ufficio Centrale di Statistica ha palesato una situazione e prefigurato una tendenza che dovrebbe portare la componente tradizionalista della società, all'incirca entro il 2030, ad essere maggioritaria nel paese e, ovviamente, nella Knesset (il parlamento). A oggi secondo le stime, l'8 per cento della popolazione israeliana è ultraortodossa, il 15 ortodossa, il 13 ortodossa tradizionale, il 25 tradizionale e il 42 per cento laico. La parte di popolazione molto religiosa è salita al 23 per cento e secondo questo andamento fra trent'anni gli ultraortodossi saranno un
terzo della popolazione. A sfavorire particolarmente la parte più occidentalizzata è il numero delle nascite: come è avvenuto in ogni società moderna, la fetta più progredita della popolazione ha visto diminuire costantemente il numero dei propri figli e in Israele oggi la famiglia laica tipo è composta mediamente da due genitori e un solo figlio. I tradizionalisti, in particolare gli ultra-ortodossi, in media sfornano otto figli per nucleo famigliare.
Quella che si va delineando, in un futuro nemmeno troppo lontano, è la presa del potere da parte dei fondamentalisti religiosi, in un paese, non scordiamocelo, in possesso della bomba atomica.
Se gli iraniani hanno letto queste stime probabilmente non hanno tutti i torti a dotarsi anche loro di ordigni nucleari, più che altro per scongiurare un attacco atomico israeliano che non avrebbe adeguate contromisure.
Lo so, è una provocazione. Ma se ci ragioniamo bene, perchè dovremmo, a ragione, aver timore dei fondamentalisti islamici e non di quelli ebraici? La risposta è semplice: per il momento agli Stati Uniti e all'occidente fa comodo così. Come compresero sia i russi che gli americani, in piena guerra fredda e dopo i casi in cui più si andò vicini ad un conflitto atomico-apocalittico, la bomba atomica è un'arma totalmente irrazionale se in mano a entrambe le fazioni in guerra. L'escalation non vedrebbe primeggiare nessun vincitore e, parafrasando Tacito, creerebbe un deserto chiamato pace.

Tornando al nostro discorso, anche se fin dalla nascita di Israele i socialisti furono fermamente decisi ad integrare le donne nei gangli dello stato, addirittura a farle parte integrante di "Tsahal" (l'esercito), i timorati di dio sono riusciti ad imporre alcune regole da apartheid di genere: come la separazione tra donne e uomini nei trasporti pubblici e, in alcune medie città e quartieri di Gerusalemme ad alta concentrazione di ortodossi, una segnaletica stradale che indica il senso di marcia riservato al genere femminile. Tutto ciò è potuto accadere perchè Ben Gurion decise di non dotare il nascituro stato di una costituzione scritta, per non imporre delle leggi difficilmente mutabili e dunque salvaguardare l'armonia lasciando di volta in volta le decisioni in mano al fluttuare della contrapposizione politica. Oggi però pare che il banco sia saltato.

Anche se il 6 gennaio 2011 una sentenza dell'Alta Corte israeliana ha stabilito che la segregazione è illegale, e imposto alle società di gestione del trasporto pubblico di mischiare i passeggeri, gli haredim non ci stanno e ancora oggi nei fatti questa disposizione non è prassi. Un altro fronte caldo, già accennato, è quello che riguarda la coscrizione obbligatoria. Lo scorso febbraio l'Alta Corte di giustizia di Gerusalemme ha sentenziato che la "Tal Law", che permetteva ai giovani studiosi della Torah l'esenzione dalla leva obbligatoria, ad agosto, quando andrà a scadenza, non sarà rinnovata. Naturalmente questa decisione ha scatenato le ire degli haredim, con proteste di piazza a volte anche piuttosto violente. La legge fu ratificata nel 2002 dall'allora premier Ariel Sharon per offrire una via d'uscita agli ebrei ultraortodossi che non vogliono adempiere agli obblighi di leva, che in Israele dura due anni sia per le donne che per gli uomini. La norma stabilisce che chi frequenta una scuola rabbinica può rinviare fino a 22 anni l'ingresso obbligatorio nell'esercito. Il problema, però, è che a quell'età la maggior parte degli haredim ha già un numero di figli tale da permettergli di essere esentato per altri motivi. Questo privilegio, com'è facile capire, non è mai andato giù alla parte laica e moderata della popolazione, che negli anni ha presentato vari ricorsi fino a giungere alla sentenza sopra citata. La questione dei privilegi e delle agevolazioni di cui godono gli ultraortodossi, non ha solo risvolti di iniquità sociale, ma anche economici. Questo accade perchè lo stato sussidia tutti coloro spendono l'intera vita allo studio delle sacre scritture, inducendo la parte di popolazione tradizionalista, che in maggioranza si dedica a questa attività, a sviluppare un atteggiamento parassitario. Gli haredim sono la parte più povera della società israeliana: per lo più disoccupati che vivono di questi sussidi statali, il loro mancato apporto produttivo alla crescita economica del paese grava enormemente sui conti pubblici, e ancora di più mette in pericolo il patto sociale fra le diverse fasce che compongono la collettività israeliana.

In conclusione quello che più  mi preoccupa, naturalmente, non è tanto la stabilità interna di Israele, in quanto paese a se stante, ma in quanto attore fondamentale nel processo di stabilizzazione dell'intero teatro mediorientale. Il fatto che gli israeliani dispongano di armi nucleari, e che nel futuro del paese della stella di David possa concretamente affacciarsi il fondamentalismo religioso, in questo caso ebraico, non è per nulla rassicurante. Così come non c'è da stare tranquilli per il possibile disimpegno americano nella regione, ora che gli USA, grazie allo Shale Gas, potrebbero guadagnare l'autonomia energetica e dunque abbandonare al suo destino il medioriente. Sarebbe forse opportuna una politica di disarmo concertata fra i diversi attori, ma viste le posizioni, per lo più irriducibili, sembra difficile che questo possa avvenire in maniera pacifica. Come ultima analisi sarebbe ora di smetterla di considerare Israele il campione mediorientale della libertà, e i paesi arabi solo come regimi dittatoriali. Come si può vedere non tutto è come sembra e anche Israele ha le sue zone grigie, che con il passare degli anni potrebbero diventare completamente nere.

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