lunedì 30 marzo 2009
Testamento biologico
Il problema della vita artificiale in realtà è una qusestione recente. Solo dagli anni settanta, in seguito a gravi traumi o malattie inevitabilmente mortali, è possibile con l'ausilio di alcune macchine protrarre la vita oltre il confine della fatalità. Respiratori meccanici, digestori artificiali e alimentazione fornita, insieme a farmaci di ultima generazione, tramite un inesorabile sondino che scende giù nell'esofago fino ad arrivare direttamente allo stomaco non hanno nulla di naturale. Senza nulla togliere alle tante opportunità portate da queste tecnologie, parlare di eutanasia quando se ne rifiuta l'ausilio è semplicemente sconcertante. La nostra costituzione tutela la libertà di scelta oltre al diritto alla vita, e non c'è nessuna contraddizione in questo. E' da stato etico, oltre che falsamente indipendente, voler imporre per decreto una propria visione del cosiddetto "fine vita". Inoltre nel disegno di legge proposto alle camere, a causa dell'emendamento dell'Udc, vi è un incoerenza di fondo insanabile, che getta disdoro sulla reale volontà delle istituzioni di far chiarezza sulla questione. In pratica se una persona redige un "testamento biologico", con tanto di leggittimazione notarile, in un periodo precedente all'evento che poi lo porterà ad un agonia senza via d'uscita, in sostanza alla morte, a questa persona non possono essere sottratte nè la ventilazione artificiale, nè l'alimentazione e l'idratazione per mezzo di un sondino. Mentre se quest'indivuo in piena agonia (dunque dopo che una malattia o un incidente ne hanno inficiato in maniera irrimediabile la salute), ma sorretto ancora dalla dovuta ragione, rifiutasse la vita artificiale si vedrebbe risparmiata l'inutile sofferenza non desiderata. Assurdo. Mi dispiace, ma nonostante io abbia profuso un notevole impegno nella comprensione della questione, non sono riuscito a capire come sia stato possibile dar vita a una tale contraddizione.
I politici che, dopo il caso Englaro (per altro non comparabile con ciò che si è discusso in quanto la volontà di Eluana è stata ricostruita e non direttamente espressa), sono assurti a paladini della vita tout court, hanno, in modo viscido e vergognoso, portato il naturale dibattito ,che un tema così sensibile genera, sul campo della radicale contrapposizione tra un partito della vita (quello loro) e un partito della morte (coloro che sostengono la libertà di scelta). Infinitamente influenzati dalle gerarchie ecclesiastiche questi uomini del bene si sono permessi di sputare sentenze sull'operato del padre di Eluana, sostenendo che l'ampio spettro di comportamenti e di relative decisioni sul fine vita, proprio di una società matura e responsabile, non è ammissibile, in quanto è da "assassini" o da aspiranti "suicida" rifiutare le inutili cure. Una domanda: ma se lo stato non permette di interrompere l'alimentazione e l'idratazione forzata a chi le rifiuta perchè inesorabilmente avviato alla morte, come la mettiamo con chi pratica lo sciopero della fame? E con chi è affetto da anoressia, e dunque non si nutre? E con tutti quelli che per povertà non hanno di che sfamarsi? Lo stato dovrebbe obbligare anche questi ad alimentarsi, dato che per i malati sono diritti non alienabili pur di fronte al diniego degli interessati. Giusto? Ma allora chi muore di fame non ha più nulla di cui preoccuparsi, lo stato garantirà loro il cibo, anche quando sazi lo rifiuteranno.
Libera scelta sul proprio corpo, sulla propria vita e sulla propria morte. Se la risposta delle istituzioni a un problema così serio e sentito dalla gente è un obbligo a soffrire sempre o comunque, anche quando non se ne ha voglia, perchè la sofferenza cristiana è un viatico per il paradiso, meglio non avere nessuna legge e lasciare il tutto all'arbitrio di chi il dolore lo affronta, giorno dopo giorno.
Piano casa 2
Nello specifico del "piano casa" proposto dal governo, il mio giudizio, quantunque il progetto non sia ancora del tutto chiaro, non è pregiudizialmente negativo. Se gli interventi di ampliamento o di ricostruzione non andranno a divorare altro terreno libero, come sembra che sia, il piano può essere di stimolo all'economia, e magari con adeguati progetti si potrebbe avere anche un miglioramento di alcune realtà abitative attualmente obbrobriose. Oltre all'aspetto meramente estetico, una particolare attenzione deve essere rivolta al calcolo della stabilità degli edifici che subiranno modifiche. Anche se in merito all'efficienza degli studi di stabilità negli ultimi anni le cose sono migliorate, con la responsabilizzazione di architetti, ingegneri e geometri, che rispondono personalmente di eventuali crolli e quant'altro, non bisogna dimenticare che noi siamo il paese delle scuole, delle case e degli edifici pubblici che crollano senza un motivo. E l'attenzione non è mai troppa quando ne va della vita delle persone (io sono molisano , e a San Giuliano di Puglia abbiamo avuto un assaggio di come modificare senza criterio una struttura può essere letale). Ancora sulla tutela ambientale, intoccabili devono essere i vincoli territoriali, per non far diventare una buona proposta il prologo di una deregulation dell'attività edilizia nel nostro paese. Le forze dell'ordine, nonostante oggigiorno il nostro territorio sia estremamente protetto da leggi e vincoli vari, non fanno in tempo a scoprire un abuso edilizio e a intraprendere le adeguate procedure di intervento, che altrove spuntano altri abusi al bene comune: l'ambiente. In sostanza non mi fido degli italiani e tantomeno, come ho già scritto nell'altro post, del loro buon gusto. Nessun paese ha avuto tanta grazia e al tempo stesso è stato amministrato con tanto cinismo e completa assenza di lungimiranza in materia di politiche ambientali, come l'Italia. Senza dimenticare che le colpe più gravi dello scempio ambientale, particolarmente intenso in alcune regioni, ricadono sulle spalle dei cittadini.
venerdì 27 marzo 2009
mercoledì 25 marzo 2009
Piano casa o condono?
Le obiezioni però sono tante e riguardano l'endemica, almeno in alcune regioni, propensione all'abusivismo. L'Italia è un paese bellissimo abitato da gente davvero poco accorta, per non dire squallida. Intere zone, vedi Campania, sono alla mercè degli speculatori, e togliere ulteriori vincoli alla possibilità di costruire non mi sembra una buona idea. Berlusconi ha esordito dicendo "mi affido al buon gusto degli italiani". Quale buon gusto? Le villette senza intonaco che spesso si vedono nelle province meridionali? O gli innumerevoli ecomostri che da nord a sud affliggono il panorama del belpaese? Sono convinto che gli italiani hanno perso il loro buon gusto almeno da duecento anni. Comunque il decreto, se articolato in un certo modo, non è malefico. Innanzitutto se si interviene su edifici esistenti, sul loro ampliamento ed eventuale riqualificazione, e le intraprese possibili sono accuratamente specificate, lo stimolo all'economia diventa reale. In secondo luogo, devono essere mantenuti tutti i vincoli paessaggistici che, seppur odiati dagli operatori edili e da chi possiede un abitazione in un centro storico, in un paese autolesionista come il nostro sono vitali. La piccola impresa artigiana, che fa da indotto alle più grandi aziende di costruzioni, potrebbe realmente ricevere un beneficio, e corposo anche. Insomma bisognerà attendere informazioni per dirimere le perplessità. Non affidandoci al buon gusto degli italiani, altrimenti Dio ci salvi.
In tutto ciò non è stato nemmeno sfiorato il problema di quelli che una casa non l'hanno. E in un periodo di crisi come questo non avere un tetto può essere socialmente letale. Inoltre è sempre più difficile, per chi assolutamente non può acquistare un alloggio, affittare un appartamento seppur misero. I prezzi non sono scesi, anzi continuano a salire, ed è di un urgenza capitale stanziare denaro per aiutare le numerose famiglie, e i tanti giovani e disoccupati che si trovano in questa situazione. Calmierare gli affitti, offrire case non occupate con affitto bloccato e, ma questa è una pia illusione, riattivare un progetto di edilizia pubblica. In Italia è ormai da mezzo secolo che questo non avviene, l'ultimo ad interessarsi seriamente alla questione fu Amintore Fanfani. Tutto ciò è sconcertante. Un paese non può progredire con tante persone a cui manca il bene primario della casa. E' questo un elemento imprescindibile per qualsiasi progetto di stabilizzazione personale si voglia intraprendere: mettere su famiglia, fare unacquisto importante, rendersi autonomi dai propri genitori. Questa situazione denota un insensibilità profonda dei governanti, che con la scusa del "non ci sono soldi" ormai da troppo tempo se ne fregano. I soldi ci sono. I cazzo dei nostri soldi. Fate le case popolariiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii! OH!
martedì 24 marzo 2009
lunedì 23 marzo 2009
Pdl: la tomba di Berlusconi?
Insomma, dopo la "proposta del predellino" (quando Berlusconi al termine di un comizio, dal predellino di una Mercedes blindata, lanciò la proposta di costituire il nuovo partito) ,che fece letteralmente incazzare i "colonnelli", la diluizione di An nel Pdl sembra cosa fatta. Ma qui entra in gioco, o meglio inizia il gioco di Gianfranco Fini. Da anni ormai impegnato a costruirsi un immagine di rispettabilità democratica, Fini è palesemente alla caccia dell'eredità politica (la poltrona di presidente del consiglio) di Berlusconi. Quello del partito unico era l'ultimo tassello che mancava al suo progetto. Da questo momento chi voterà l'uomo di Arcore, esprimerà implicitamente anche una preferenza per lui. Da leader di An non avrebbe mai potuto sperare di assurgere al ruolo di prima punta dello schieramento di centrodestra, ora, con Berlusconi che punta alla presidenza della repubblica, per lui si aprono spiragli inimmaginabili fino a qualche tempo fa. Il problema potrebbe essere rappresentato dal fatto che l'idea di Berlusconi capo dello stato non va giù a gran parte della sinistra, e per essere eletto presidente della repubblica necessita di un ampia convergenza, anche dell'opposizione. Dunque se questo, il piano A, non si dovesse realizzare, e il Berlusca rimanesse ancora in circolazione come possibile premier, Fini ha già in mente il piano B Fino ad ora Forza Italia non è stato un vero partito, di quelli che siamo abituati a conoscere. Non ha mai fatto un congresso per definire la base programmatica, non è mai stato animato, al proprio interno, da un acceso dibattito politico. Berlusconi si è sempre comportato come un padre padrone è a sempre fatto autonomamente le sue scelte. L'intento di Fini è quello di portare Berlusconi a scontrarsi su idee e programmi, a intraprendere un dibattito per definire la piattaforma politica e a concertare le decisioni; in sostanza ridurre "l'unto del signore" al pari di tutti gli altri leader di centrodestra, in un vero partito, fatto di veri congressi. Questo sarebbe letale per uno come Berlusconi che, abituato ad essere il centro del suo mondo, perderebbe la sua aurea taumaturgica. E per uno che si sente un Dio, non potrebbe esserci cosa più letale che scoprirsi uomo (e neanche dei migliori).
Non preoccupatevi però, la vecchia volpe avrà già pensato a tutto questo e pianificato le dovute contromisure. Molto probabilmente a fare una brutta fine e ad abbassarsi al ruolo di comprimario sarà Fini. Purtroppo per lui (per le sue aspirazioni) e per noi, prima di vedere un altro uomo a capo del centrodestra (e a capo del governo) passerà ancora del tempo, e la cosa che più mi fa raccappriccio e mi rende sconsolato, è che dovremo aspettare la morte fisica, e non politica del cavaliere, prima di liberarci di lui.
domenica 22 marzo 2009
Robert Johnson & Charlie Chaplin
Smash Brunetta
venerdì 20 marzo 2009
martedì 17 marzo 2009
Molise: le comunità locali vogliono contare di più
Il caso di cui vorrei parlare, e che maggiormente mi sta a cuore, è quello del Molise. Come ho già messo in evidenza in un post di qualche giorno fa, la picola regione del centro-Italia stuzzica i voraci appetiti di molti imprenditori del settore energetico. Le cause di questo assalto al fortino, la situazione sta assumendo questi connotati, sono varie e per lo più riconducibili allo scarso peso politico della regione e alla sua perifericità mediatica. Il Molise è una regione che non appare spesso sui giornali nazionali, probabilmente perchè non accade nulla di appetibile giornalisticamente, ha un territorio per lo più vergine e i siti industriali riguardano solo la zona costiera, dove si trovano alcune grandi fabbriche. Inoltre l'inurbamento, specie nell'entroterra, è limitato e caratterizzato da piccoli paesi distanti l'uno dall'altro. Dunque c'è molta terra da sfruttare a scopo industriale, e dato che l'agricoltura, se non praticata aggregando grossi appezzamenti in grandi aziende o cooperative ormai non è più affatto remunerativa, si può ben capire la facilità con cui gli emissari delle aziende reperiscono terreni adatti alla produzione di energia.
Ma il problema più grande riguarda la capacità della classe dirigente regionale di tutelare i propri cittadini elettori. Stiamo parlando di una classe politica vecchia e decrepita, ancora completamente legata ad un costume politico che fa della sudditanza al partito di riferimento il proprio modus operandi. Non c'è stato un rinnovamento dei ranghi dirigenziali, e questo ristagno, come d'altronde è avvenuto per la Dc in ambito nazionale, ha provocato storture e cristallizzazione di posizioni e incarichi. Una prova di questo è il maxiprocesso di Larino riguardante la corruzione e la frode nella sanità regionale, facente capo all'inchiesta black hole. Nella rete degli investigatori sono caduti molti nomi noti della politica e dell'establishment regionale.
Questa incapacità di far sentitre la propria voce, quando lo Stato decide di costruire infrastrutture sul territorio regionale, si traduce in un sentimento di frustrazione che si sta facendo largo tra la popolazione. In Molise sono stati presentati, fino a marzo 2007, 661 progetti per l'installazione di impianti eolici, di cui 320 sono stati approvati, per una capacità produttiva che a oggi è di 35,4MWh all'anno. Un enormità per una regione che consuma molto meno. Con questo non voglio assolutamente dire che una regione deve produrre per quanto consuma. Lo spirito di solidarietà nazionale induce, come il Molise ha sempre fatto, a disporre risorse in eccedenza a beneficio delle altre regioni. Detto questo, però, non è giustificabile un accanimento, come quello che sta subendo il territorio molisano, che sta sconvolgendo sia il paesaggio che l'ambiente. Spuntano pali eolici dappertutto come funghi, stimolati anche da una legislazione, in merito alle concessioni d'impianto, altamente insufficiente o quantomeno sbagliata. Paradossalmente, per quanto riguarda il discorso del concorso popolare alle decisioni, attualmente è possibile per un emissario di un azienda del settore energetico trattare direttamente con il contadino proprietario della terra. Le offerte che vengono fatte dalle aziende sono talmente vantaggiose, si parla di 8mila euro l'anno per interdire solo 50m quadrati di terreno, che molte persone vanno alla ricerca di questi emissari, dato che coltivare un ettaro di terra non frutta che mille euro l'anno, e ci si ammazza di lavoro.
Insomma, ciò che la gente chiede è di essere messa al corrente di decisioni che la interessano da vicino. Non per poter organizzare meglio le proteste, come molti potrebbero pensare, ma per poter concorere alla realizzazione del progetto. Naturalmente, come nel caso delle 5 centrali a biomasse progettate nella Valle del Trigno, non si può chiedere ad una comunità, di fronte al futuro della propria salute, di fare spallucce e accettare supinamente di fare arricchire pochi a discapito di molti. Dopotutto un modello decisionale partecipato, in alcuni casi, può rendere meno amara la pillola da ingoiare, o addirittura, con una buona informazione sui progetti, entusiasmare una popolazione troppo spesso vista come intralcio, ma che in realtà a solo a cuore la propria sorte e quella del paese.
domenica 15 marzo 2009
Usa. Obama: via libera ai finanziamenti federali per la ricerca sulle staminali
sabato 14 marzo 2009
Open source: diritti in rete (articolo pubblicato su Notizie Verdi il 12/03/2009)
Flessibile, economico e affidabile: l'Open source è la risposta alle esigenze quotidiane di un mondo sempre più informatizzato। Rispetto ai software commerciali dove è il marketing a definire le caratteristiche del prodotto, il software libero permette agli utenti di deciderne l'evoluzione in base alle diverse necessità। «I vantaggi sono molti - spiega Marco Pantò, presidente della Linux Shell Italia -। L'open source garantisce trasparenza e sicurezza, il prodotto viene costantemente monitorato da una comunità di programmatori liberi e indipendenti। Rispetto al software proprietario, è regolamentato dal copyleft, una licenza che lascia agli utenti i diritti di utilizzo»। Le sue applicazioni sono dunque modellate sulle esigenze segnalate da chi utilizza il programma। Se emergono dei problemi è possibile risolverli velocemente, il codice sorgente (l'insieme delle istruzioni necessarie al funzionamento del software) è aperto e qualsiasi programmatore può intervenire.
L'open source rappresenta inoltre una soluzione economica: nel 2008 lo Stato italiano ha speso 274 milioni di euro in licenze e manutenzione. «Con questo tipo di sistemi i costi si ridurrebbero significativamente - continua Pantò -.Viene meno qualsiasi obbligo di sottoscrivere contratti di assistenza, che il più delle volte sono a esclusivo beneficio del produttore. Le licenze costano molto e non danno nulla in cambio, se per un qualsiasi motivo perdi il file su cui stavi lavorando, non hai diritto ad alcuna tutela». È del 2000 la direttiva della Comunità europea che auspica l’utilizzo dell’open source nell’ambito della pubblica amministrazione. «Il problema è etico - sottolinea Pantò -. Quando un ufficio pubblico mette in rete un documento usando un formato proprietario, presuppone e obbliga il cittadino a possedere una copia ufficiale del programma per leggerlo. Lo Stato dovrebbe invece pubblicare documenti in un formato aperto senza favorire alcun privato, che a conti fatti è sempre lo stesso: Microsoft». Il Centro Nazionale per l'informatica nella pubblica amministrazione (Cnipa), che redige ogni anno un rapporto sullo stato dell'arte in ambito statale, ha più volte segnalato la validità del software libero dando indicazioni sul da farsi. «Il mondo aperto della comunicazione non può rimanere prigioniero di una visione feudale della proprietà» diceva Gilberto Gil e se la condivisione delle conoscenza è alla base dello sviluppo, porte aperte all'open source.
martedì 10 marzo 2009
Ancora centrali in Molise
Da un pò di tempo il Molise è la meta più ambita da chiunque voglia costruire una centrale elettrica, o più in generale produrre energia. Qualcuno ricorderà, qualche mese fa, le feroci polemiche e la mobilitazione civica scaturite dalla decisione d' impiantere, al largo delle coste molisane, la più grande centrale eolica off-shore d'Europa. Il progetto fu inizialmente bloccato, durante il governo Prodi, dall'allora ministro delle infrastrutture, Antonio Di Pietro. Ma fu poi ripreso dall'attuale esecutivo nei primi mesi del mandato, per essere definitivamente abbandonato in seguito al palese disequilibrio tra vantaggi (produzione di energia elettrica e resa occupazionale) e costi (impatto ambientale).
Ora si parla di costruire nella valle del Trigno, in un tratto di 15km compreso tra Montefalcone del Sannio e Mafalda, ben 5 centrali alimentate a biomasse. Gli impianti "dovrebbero" funzionare con gli scarti della lavorazione agricola, e tutto il materiale che rimane a terra nel sottobosco (sterpaglie, rami secchi, foglie etc.). Questo in teoria. Nella realtà invece la centrale che sorgerà a Mafalda, che in ordine temporale è la più prossima, dovrà avere una potenza di 20MWh, e per raggiungere una tale produzione brucerà qualcosa come 100.000 tonnellate di materiali all'anno. Chiunque conosca quella zona sa bene che non c'è la possibilità reale di raggiungere una tale quantità di combustibile facendo affidamento soltanto su scarti agricoli, e rifiuti del sottobosco.
Da dove arriverà allora il combustibile? E' questa la domanda che si pongono con sempre più insistenza gli abitanti della zona. Memori di altre esperienze, in altre regioni d'Italia, nella quale il carburante usato è tranquillamente diventato i rifiuti solidi urbani, con i comprensibili danni per la salute dei cittadini, anche a Mafalda le persone hanno organizzato una civile, ma decisa, protesta nei confronti del sindaco. Si perchè il primo cittadino mafaldase è il principale sponsorizzatore del progetto. A quanto pare la salute dei suoi paesani, che dovrebbe essere la prima preoccupazione di un delegato popolare, non è al primo posto nei pensieri di Nicola Valentini (sindaco di Mafalda). Ma c'è dell'altro.
Il sindaco è anche il presidente della locale filiale della Banca di Credito Cooperativo della Valle del Trigno, principale finanziatrice del progetto. Sembrerebbe un palese caso di conflitto d'interessi, ma siamo nel paese in cui questo non è un problema, anzi è un vantaggio. I cittadini di Mafalda, comunque, non si sono limitati a contestare la realizzazione dell'opera, dando corso ad un attacco di sindrome nimby (non nel mio giardino), senza proporre un alternativa. Infatti la proposta del comitato, è costruire al posto delle centrali a biomasse, dei parchi fotovoltaici o eolici, che con le moderne tecnologie danno delle discrete rese senza il problema delle emissioni. Queste si sono fonti rinnovabili e meritano di eseere incentivate. Al contrario delle biomasse, che vengono derubricate sotto la voce "rinnovabili", ma che in realtà bruciano materiali e dunque non vengono alimentate con risorse continue e inestinguibili, come il sole e il vento.
I cittadini di Mafalda e di tutta la Valle del Trigno andranno avanti nella loro lotta fino a quando non verranno fugate le loro preoccupazioni, e sarà accolta la loro istanza di guardare al futuro senza avere ad un palmo da casa un nuovo ecomostro.
La miopia della giustizia internazionale e la tragedia del Darfur.
In discussione è l'utilità di un simile provvedimento. Come si è già potuto sperimentare in altri casi simili, i despoti, colpiti da questi mandati internazionali, non vengono quasi mai perseguiti finchè sono al potere. L'unico riscontro pratico si è avuto nella decisione di Bashir di espellere tutte le organizzazioni umanitarie presenti nel paese, le uniche dedite alla cura di coloro che fuggono dal conflitto, stipati in condizioni inumane nei campi profughi. A questo punto una domanda sorge spontanea e prepotente: chi fornirà loro il cibo, l'acqua e le pur scarse medicine, necessarie alla sopravvivenza? Il procuratore Ocampo? Credo di no.
Una soluzione a questa immane tragedia va trovata! Ma non può che essere una soluzione politica, e non giudiziaria. Perchè il problema, anche se vede dei risvolti importanti in questioni etnico-religiose, è eminentemente politico. Questa lettura ha acquisito ancora più pregnanza da quando nella regione, ricca di materie prime, è entrata con veemenza la Cina. E proprio la Cina, insieme all'Unione Africana, ha condannato fermamente il mandato di cattura. Se in passato un intervento militare, o una forte azione diplomatica statunitense erano opzioni praticabili, con la situazione attuale è impensabile di voler risolvere la questione senza coinvolgere la Cina. Il colosso asiatico, ormai da anni, non segue più una linea ideologizzata in politica estera, e proprio alla pragmaticità della Cina e alla sua capacità di fare affari si deve aggrappare la comunità internazionale, che non potrà però esimersi dall'offrire qualcosa.
Purtroppo attualmente l'unico paese che ha il peso politico necessario per intavolare una trattativa con la Cina, gli Stati Uniti, sono alle prese con una crisi economica che assorbe totalmente l'azione del neopresidente Obama. In queste condizioni, inevitabilmente, la guerra del Darfur torna a viaggiare sottotraccia. Lo si vede anche dai giornali, quelli italiani in testa, che dedicano alla questione poco più che un trafiletto nelle pagine interne. Ma da Obama, di origini africane e dunque sensibile alle questioni della sua terra di origine, ci si aspetta qualcosa, l'Africa si aspetta qualcosa. Fondamentale è non spegnere i riflettori su questa regione che rischia di diventare la nuova faglia di divisione tra occidente e islam. Molti osservatori e intellettuali infatti sostengono che gli accadimenti di questi anni nell'africa subsahariana, sono paragonabili alle vicende che sconvolsero il medioriente nella metà del secolo scorso. E' importante dare visibilità alla tragedia che gli esseri umani del Darfur stanno vivendo. Non vi possono essere eccidi di serie a e altri di serie. Ogni genocidio è un onta per il genere umano tutto.
domenica 8 marzo 2009
Terra di nessuno, di Leed Eric J: la guerra nella mente dei combattenti
Una piccola recensione del libro con la possibilità di acquistarlo:
http://www.mulino.it/edizioni/volumi/scheda_volume.php?vista=scheda&ISBNART=12037
sabato 7 marzo 2009
La fantastica gufata di Mourinho
Ora lo SpecialOne deve soltanto vincere, campionato e champions. Solo così una parte minoritaria dell'Italia calcistica potrà godere fino al parossismo, mentre l'altra, ben più corposa, dovrà mangiarsi le mani fino ai polsi. Daje Mou, facci godere.
venerdì 6 marzo 2009
La rivolta di Reggio: una rivolta di popolo.
14 luglio 1970. A Reggio Calabria esplode una violenta e sanguinosa rivolta popolare in seguito alla decisione, del governo di centrosinistra sostenuto dalla Dc e dal Psi, di assegnare il capoluogo di regione a Catanzaro, frustrando le legittime aspettative dei reggini। Quella decisione, che negava un sacrosanto diritto della città sullo stretto, venne vista dalla gente comune come un ennesimo smacco, una truffa: il reiterato menefreghismo del potere centrale, che in quella occasione “doveva” essere contestato। Per popolazione, storia e cultura, nessuna città calabrese avrebbe potuto assurgere al rango di capoluogo al posto di Reggio Calabria. Ma in Italia si sà, il banale non è mai tale e lo stesso vale per l'eccezionale. Quello che a tutti o quasi i calabresi sembrava scontato, non aveva fatto i conti con due elementi che al tempo dei fatti furono determinanti: lo scarso peso del referente politico reggino - il Dc Sebastiano Vincelli- in seno alla coalizione di governo; e la ben più corposa influenza del segretario del Partito Socialista ed ex ministro dei lavori pubblici, Giacomo Mancini, del ministro della pubblica istruzione, il democratico cristiano Riccardo Misasi e del deputato Dc Antoniozzi, cosentini i primi due, catanzarese il terzo. Non è difficile immaginare come, in sede di governo, si sia arrivati all'assurda decisione di non assegnare il capoluogo a Reggio, tenendo conto del particolare interesse dei rappresentanti, vicini a Catanzaro.
In quel periodo il mezzogiorno d'Italia e la Calabria in testa, erano alle prese con una profonda crisi economica, sociale e di rappresentanza politica। La carenza di lavoro - non più di 5।000 persone in tutta la regione erano stabilmente impiegate in grosse aziende - aveva generato un enorme flusso di migranti verso il nord Italia e l'estero, comportando lo spopolamento delle zone interne. A Reggio Calabria, 12mila persone vivevano ancora in delle casupole che erano poco più che baracche, molte delle quali risalenti al grande terremoto del 1908. A ben vedere e senza esagerare, si può affermare che la Calabria era tra le regioni più povere e dimenticate di tutta la penisola. La prospettiva del capoluogo tanto attesa, si sarebbe dovuta concretizzare, in termini occupazionali, con numerosi posti di lavoro nel campo della pubblica amministrazione. La vulgata comune che derubrica la rivolta di Reggio a mero campanilismo è dunque infondata. Ma purtroppo nel corso degli anni si è spesso sotteso a questo aspetto, fino ad arrivare alla definizione di rivolta “fascista”. Si, perchè di questo oggi si parla, ed è questo che la maggior parte delle persone pensa dei fatti di Reggio.
Quando la contestazione scoppiò era molto lontana l'idea di una sommossa violenta. Il destino di dieci mesi d
i lotta si determinò all'indomani della decisione che penalizzava Reggio: un gruppo di giovani in segno di protesta nei confronti del governo cercò di occupare la stazione ferroviaria. La polizia r
ispose con inaudita violenza, provocando molti feriti e arrestando decine di persone. Da quel momento la situazione, già infuocata dal risentimento popolare per le condizioni sociali disperate in cui versava la città, si caricò dell'ulteriore e determinante disprezzo per un autorità pubblica, che oltre a non far niente per migliorare le condizioni di vita, aggrediva i manifestanti sostanzialmente pacifici. La situazione sfuggì definitivamente di mano alle autorità quando, nella stessa giornata, una folla inferocita si riversò in Piazza Italia per chiedere il rilascio degli arrestati, e la polizia ebbe la splendida idea di disperdere l'assembramento con il manganello. Da quel momento la città divenne un inferno: barricate per le strade, questure assaltate, uf
fici pubblici dati alle fiamme e tanti tanti feriti. Le contestazioni furono avallate dal sindaco Battaglia (Dc), mentre tutti i partiti di sinistra, ad esclusione del Psiup, in linea col governo condannarono fermamente i sommovimenti. Dapprincipio anche l'estrema destra, con l'Msi locale in testa, definì i manifestanti teppisti e cialtroni, ma quando il comitato d'azione locale finì sotto il controllo del segretario generale della Cisnal (sindacato vicino all' Msi), Francesco detto “Ciccio” Franco, si schierò con la sollevazione. Innegabili a questo punto le colpe della sinistra, rappresentata in primis dal partito comunista che lasciò nelle mani dell'Msi le sorti della rivolta. I fascisti infatti non si fecero scappare l'occasione di acquisire legittimità politica, anche a livello nazionale, e appoggiarono Ciccio Franco. E' da questo momento che il movimento reggino, fino ad allora assolutamente apolitico e spontaneo, prende il nome dei “boia chi molla”, rinverdendo l'omonimo moto Dannunziano che occupò Fiume subito dopo la Grande Guerra. La completa estraneità del movimento - che inglobava in unico e spontaneo anelito di rivalsa, commercianti, operai e donne di ogni estrazione politico/sociale - alle logiche di partito e di schieramento politico, è confermata dall'appartenenza alla Cgil della prima vittima della polizia, Bruno Labate. Mentre la destra calabrese cavalca la rivolta, la sinistra locale e nazionale si trova spaccata su tutti i fronti. Il Partito Comunista condanna le agitazioni e invoca il ripristino dell'ordine pubblico. Emblematico è l'intervento di Alfredo Reichlin che fa un netto distinguo tra la lotta reg
gina e quella di Avola e Battipaglia, sostenendo che a Reggio si è venuto a creare “un moto eversivo di destra, organizzato e diretto consapevolmente, da un blocco di forze reazionarie impaurite a morte dall' avanzata difficile, faticosa, ma certa, di una situazione politica nuova anche in Calabria”. La miopia politica del gruppo dirigente comunista è troppo palese per non suscitare qualche sospetto. E l'ambiguità viene subito colta dal gruppo de il Manifesto, nettamente contrario alla posizione del Pci. Per mezzo della penna di Valentino Parlato, infatti, il giornale scissionista corrobora la tesi della trasversalità politica del movimento, sostenendo che non è necessario “ molto sforzo, né ricerca di precedenti storici, per sostenere che a Reggio vi è stata soprattutto, una esplosione di collera popolare. Nell’assenza, o nell’estremo logoramento di qualsiasi organizzazione di classe, questa esplosione è stata irretita in quel complesso di complicità parassitaria e reazionaria che domina la cosiddetta società civile delle città meridionali, ed ha avuto una gestione di destra. [...] Reggio può rientrare nella cosiddetta strategia della tensione [...], ma credere che per tre mesi migliaia di persone si siano mosse a Reggio solo per un complotto di destra è contro ogni logica”. Parlato inoltre rincara la dose con un’accusa ancora più grave verso gli ex-compagni comunisti, testimoniandone la doppiezza e portando alla luce il piano della strategia politica del Pci nei confronti del Psi। Secondo tale interpretazione dei fatti, il Pci per favorir
e il dialogo con il partito socialista, in Calabria rappresentato dal ministro Mancini, avrebbe “sacrificato” il proprio impegno a Reggio appiattendosi su posizioni filo-governative, invocando il ripristino dell’ordine pubblico.
Dalle indecisioni della sinistra, l'Msi ricavò, in termini elettorali, un notevole vantaggio inizian
do a volare vertiginosamente su picchi superiori al 50 per cento - mentre fino a poco prima, e su scala nazi
onale, quel movimento a stento raggiungeva il 4 - grazie alla figura di Ciccio Franco, oggi ricordato con una stele sul Lungomare che è il “Chilometro più bello d’Italia”। La rivolta di Reggio terminerà nel febbraio del 197
1 quando il Presidente del Consiglio Emilio Colombo annuncia che a Reggio Calabria sorgerà il quinto centro siderurgico nazionale con un investimento di tremila miliardi e oltre diecimila posti di lavoro. La città e i Reggini accettano la proposta, e dopo pochi giorni l’esercito entra in città con i carri armati che sgomberano le strade dalle barricate diventate in alcuni casi veri e propri muri innalzati dai rivoltosi. Qualche anno dopo, nel 1975, si terrà un processo contro gli animatori della rivolta.
Ciccio Franco, diventato nel frattempo senatore missino, e i suoi seguaci, verranno ritenuti colpevoli d'istigazione a delinquere, apologia di reato e diffamazione a mezzo stampa, e condannati a un anno e quattro mesi di reclusione.
Si concluse così, non senza strascichi, una delle vicende più complesse ma al tempo stesso più spontaneamente popolari della nostra storia repubblicana. Purtroppo ancora nello scorso gennaio, in occasione della visita a Reggio del Presidente Giorgio Napolitano, Pietro Mancini, figlio di Giacomo Mancini, l'ex segretario del Psi, bollava i moti di Reggio come una rivolta “fascista”. E se ancora oggi vengono usati simili epiteti per qualificare quei fatti, molte delle cause sono da ricercare nella scarsa lungimiranza espressa all'epoca da gran parte della sinistra, che nel corso degli anni si è inoltre macchiata di un becero ostruzionismo praticato nei confronti della ricerca storica, unica deputata alla discoperta della verità. Voglio concludere questo mio breve scritto con le parole di Pierre Carniti, che sul palco della Conferenza del Mezzogiorno, tenutasi nel 1972 a Reggio Calabria, davanti un mare di operai accorsi da tutta Italia per testimoniare la propria solidarietà alle genti della rivolta, in un ideale riconsegna della città al popolo reggino e meridionale dirà: “ Oggi non sono calati a Reggio, amici e compagni di Reggio, i barbari del Nord, ma con gli impiegati e con gli operai del Nord sono tornati a Reggio i meridionali!"