lunedì 30 marzo 2009

Testamento biologico

Insomma alla fine ce l'hanno fatta, sono riusciti a mettere il loro beccaccio in uno degli aspetti più intimi e personali della persona umana: l'autonomia delle decisioni da prendere di fronte alla malattia e alla sofferenza, quando queste non sono un viatico verso la guarigione ma un (per alcuni) ulteriore supplizio prima del trapasso. La sfera inerente al comportamento, alle reazioni e alle decisioni di un individuo al cospetto dell'imponderabile, cioè l'avvicinarsi della fine, la morte, è forse la dimensione meno esplicabile e più irrazionale con cui l'uomo deve, prima o poi, rapportarsi. Decidere se una vita è ancora degna, o meno, di essere vissuta, non può rispondere a nessuna logica codificata, non può essere pianificata. Non c'è mai stato nè mai ci sarà uno standard comune a tutti coloro che si avviano sul viale del tramonto. E questo è tanto più vero se la serenità del trapasso è minata dalla sofferenza, da una malattia che sfigura il corpo e rende impraticabile la vita come la si è conosciuta fino ad allora. Molte scuole di pensiero, con in testa le varie religioni, offrono pacchetti preconfezionati con tutte le istruzioni utili al viaggio verso il mistero della morte. Ma nei momenti più bui, quando le certezze di una vita vissuta con la pienezza del proprio corpo e della propria mente ci abbandonano, non sempre gli atteggiamenti sono coerenti con ciò che si è professato fino all'altro ieri. Imporre a una persona di continuare a soffrire come un cane solo perchè qualcuno, mosso da motivazioni etiche e di principio da cui non si può prescindere, ha deciso che la vita va vissuta in ogni caso è scandaloso. Mettere sullo stesso piano l'imposizione del casco ai motociclisti, e le cinture di sicurezza con l'alimentazione forzata è da criminali del pensiero. Oltre che da perfidi mistificatori. Nessuno, neanche chi in prima persona ha avuto un proprio familiare in fin di vita e lo ha visto contorcersi dal dolore e dagli spasmi di un corpo non più controllabile può conoscere i desideri di chi invece vede la vita inesorabilmente scadere nel dolore quotidiano. Tantomeno la decisione può essere rimessa alla coscienza ei medici, che già per quanto riguarda l'aborto e la somministrazione della pillola del giorno dopo hanno fatto e continuano a fare danni su danni. Il medico fa il suo lavoro finchè aiuta l'ammalato a guarire, in questo consiste la filosofia ippocratica, non nel prolungamento non voluto del dolore. Cosa significa: bisogna recuperare la cultura della sofferenza? Cosa significa: bisogna saper accettare con serenità la morte, se poi non si vuol far morire in pace una persona già condannata?


Il problema della vita artificiale in realtà è una qusestione recente. Solo dagli anni settanta, in seguito a gravi traumi o malattie inevitabilmente mortali, è possibile con l'ausilio di alcune macchine protrarre la vita oltre il confine della fatalità. Respiratori meccanici, digestori artificiali e alimentazione fornita, insieme a farmaci di ultima generazione, tramite un inesorabile sondino che scende giù nell'esofago fino ad arrivare direttamente allo stomaco non hanno nulla di naturale. Senza nulla togliere alle tante opportunità portate da queste tecnologie, parlare di eutanasia quando se ne rifiuta l'ausilio è semplicemente sconcertante. La nostra costituzione tutela la libertà di scelta oltre al diritto alla vita, e non c'è nessuna contraddizione in questo. E' da stato etico, oltre che falsamente indipendente, voler imporre per decreto una propria visione del cosiddetto "fine vita". Inoltre nel disegno di legge proposto alle camere, a causa dell'emendamento dell'Udc, vi è un incoerenza di fondo insanabile, che getta disdoro sulla reale volontà delle istituzioni di far chiarezza sulla questione. In pratica se una persona redige un "testamento biologico", con tanto di leggittimazione notarile, in un periodo precedente all'evento che poi lo porterà ad un agonia senza via d'uscita, in sostanza alla morte, a questa persona non possono essere sottratte nè la ventilazione artificiale, nè l'alimentazione e l'idratazione per mezzo di un sondino. Mentre se quest'indivuo in piena agonia (dunque dopo che una malattia o un incidente ne hanno inficiato in maniera irrimediabile la salute), ma sorretto ancora dalla dovuta ragione, rifiutasse la vita artificiale si vedrebbe risparmiata l'inutile sofferenza non desiderata. Assurdo. Mi dispiace, ma nonostante io abbia profuso un notevole impegno nella comprensione della questione, non sono riuscito a capire come sia stato possibile dar vita a una tale contraddizione.


I politici che, dopo il caso Englaro (per altro non comparabile con ciò che si è discusso in quanto la volontà di Eluana è stata ricostruita e non direttamente espressa), sono assurti a paladini della vita tout court, hanno, in modo viscido e vergognoso, portato il naturale dibattito ,che un tema così sensibile genera, sul campo della radicale contrapposizione tra un partito della vita (quello loro) e un partito della morte (coloro che sostengono la libertà di scelta). Infinitamente influenzati dalle gerarchie ecclesiastiche questi uomini del bene si sono permessi di sputare sentenze sull'operato del padre di Eluana, sostenendo che l'ampio spettro di comportamenti e di relative decisioni sul fine vita, proprio di una società matura e responsabile, non è ammissibile, in quanto è da "assassini" o da aspiranti "suicida" rifiutare le inutili cure. Una domanda: ma se lo stato non permette di interrompere l'alimentazione e l'idratazione forzata a chi le rifiuta perchè inesorabilmente avviato alla morte, come la mettiamo con chi pratica lo sciopero della fame? E con chi è affetto da anoressia, e dunque non si nutre? E con tutti quelli che per povertà non hanno di che sfamarsi? Lo stato dovrebbe obbligare anche questi ad alimentarsi, dato che per i malati sono diritti non alienabili pur di fronte al diniego degli interessati. Giusto? Ma allora chi muore di fame non ha più nulla di cui preoccuparsi, lo stato garantirà loro il cibo, anche quando sazi lo rifiuteranno.


Libera scelta sul proprio corpo, sulla propria vita e sulla propria morte. Se la risposta delle istituzioni a un problema così serio e sentito dalla gente è un obbligo a soffrire sempre o comunque, anche quando non se ne ha voglia, perchè la sofferenza cristiana è un viatico per il paradiso, meglio non avere nessuna legge e lasciare il tutto all'arbitrio di chi il dolore lo affronta, giorno dopo giorno.

2 commenti:

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  2. Tocchi il tema approfonditamente e da più punti di vista. Tuttavia ho dei dubbi riguardo al fatto che la fine della vita possa essere decisa da uno stato etico, il cui compito è tutelare la persona e la sua dignità in ogni momento. Ritengo in merito che, piuttosto che la fine della vita, bisognerebbe al più presto trovare cure idonee alle malattie ed ai traumi nervosi. Molta ricerca varrebbe di più di uno stato esecutore.

    MN

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